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Corriere Della Sera

Carattere Frizzante … Altitudine e grandi visionari, così in Trentino ha preso vita la nuova era dello spumante... La formula dello spumante trentino (oggi Trento Doc con marchio Trentodoc) è stata a lungo segreta. Un solo uomo la conosceva, Giulio Ferrari. Papillon, Borsalino sul capo, sigaretta tra le dita e sorriso a labbra strette, nelle foto d’epoca Giulio Ferrari sembra uno Spencer Tracy delle Dolomiti. Era un vivaista, con un buon intuito per le barbatelle, le talee con la barba, ovvero le radici della vite. Aveva studiato a San Michele all’Adige, fucina di enologi. Aveva 16 anni nel 1895 quando entrò nella scuola agraria. La sua formazione tecnica, il fiuto per gli affari e la voglia di sfidare il mondo hanno creato, nel giro di qual-che decennio, il mondo delle bollicine di montagna all’ombra delle Alpi, ora tutelato dal Trentodoc. Sono stati i viaggi in Francia a far capire a Ferrari che il modello dello Champagne si poteva replicare ai piedi delle montagne trentine. “È l’uomo che ha portato lo Chardonnay in Italia”, racconta Nereo Pederzolli, autore del libro Trentodoc. Quando la montagna diventa perlage (Artimedia-ValentinaTrentini). Cominciò a far arrivare barbatelle dalla Francia e a convincere i viticoltori ad usarle. Eravamo nel periodo dopo la strage della fillossera, c’era bisogno di rinnovare le piante”. L’azienda Ferrari è stata fondata nel 1902. All’inizio Ferrari è cauto. Meno di mille bottiglie l’anno. Nel Dopoguerra l’azienda riparte ma Giulio decide di passare il testimone. Aveva un figlio adottivo, che non era interessato a diventare produttore di vino. E una moglie più giovane. Voleva che l’azienda rimanesse nelle mani di un trentino. C’era il proprietario di un’enoteca in città che gli ispirava simpatia. Si chiamava Bruno Lunelli, e a scadenze fisse passava da lui acquistando un paio di casse di spumante. Era preciso nei pagamenti e cordiale. I due si capivano con un cenno. Giulio tenta di vendere tutto alla scuola che gli aveva donato il sapere. Ma da San Michele arriva un “no, grazie, non siamo in grado di gestire una cantina come la sua”. Così il proprietario dell’enoteca Lunelli (ora si chiama Grado 12) si fa avanti e mette sul tavolo 30 milioni di lire. Affare fatto. Era il 1952. Lunelli chiede e ottiene che Giulio resti in azienda. E lui continua a mantenere segreta la formula della cuvée. Era scrupoloso, geloso delle sue conoscenze, preciso. Con i Lunelli gli spumanti Ferrari iniziano a farsi conoscere nel mondo. Ma intanto nascono seguaci e sperimentatori, nuovi talenti delle bollicine. Il primo gruppo è formato da cinque giovanissimi enologi, compagni di scuola. Anno 1961. Si chiamano Leonello Letrari, Bepi Andreaus, Ferdinando Tonon, Pietro Tura e Riccardo Zanetti. Il loro sogno è identico: fare come i francesi, produrre un Metodo classico. Fondano l’Equipe 5. E affittano proprio la cantina di Lavis in cui aveva iniziato Ferrari, nel frattempo trasferito in una sede più ampia. “Passavamo le nostre estati a viaggiare, Europa, Stati Uniti, Sud Africa, volevamo conoscere il mondo del vino fuori dai confini nazionali. E fu durante uno di quei viaggi che cominciammo a capire che anche per noi il futuro avrebbe potuto essere costruito attorno allo spumante”, ha raccontato Letrari, scomparso il mese scorso. I magnifici cinque arrivano a produrre mezzo milione di bottiglie, metà dei Ferrari, il loro vino diventa uno status symbol per la generazione del boom. Poi il gruppo si scioglie, 20 anni dopo. E la banda dei cinque imbocca strade diverse. Andreaus, ad esempio, dà vita a Cesarini Sforza. Nello Letrari, pioniere anche del taglio bordolese in Italia con il millesimato Fojaneghe del 1961, si dedica alla sua cantina di Rovereto. Equipe 5 passa alla Buton (l’azienda che produce Vecchia Romagna), poi alla Cinzano, infine alla Cantina di Soave. E, nel frattempo, la cantina di Lavis che ospitò prima Ferrari poi Equipe 5 è pronta per una nuova avventura. Ecco arrivare Luciano Lunelli (non parente di Bruno, “anche se mio padre faceva affari con lui”). Anni Settanta. “Eravamo in pochi - rievoca Luciano Lunelli - noi abbiamo fondato Abate nero, poi c’erano i Pisoni. Lo Chardonnay ci affascinava. La nostra fortuna era il lascito storico dell’impero austro-ungarico, grazie al quale il Trentino aveva un canale privilegiato con i mercati di lingua tedesca. Persone lungimiranti e illuminate come Ferrari avevano aperto la strada. Qui negli anni Venti c’erano solo viti di Nosiola e Vernaccia”. Una agricoltura povera, si coltivano verdure tra le viti. Abate nero inizia con 3 mila bottiglie (le attuali sono 57 mila). Ora il Trentodoc, guidato dal presidente Enrico Zanoni, è un distretto in continuo movimento. “E il numero della cantine continua a crescere - osserva Zanoni - quelle associate sono 49, un buon indicatore del benessere del comparto”.

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