Dalla zuppa di bucce di mele e pere della Russia ai tuberi di orchidea selvatica da grattugiare dalla Turchia, fino alla zuppa marocchina destinata alle puerpere. Sono i piatti degli immigrati: perché nella “valigia di cartone” chi lascia il proprio paese infila sempre qualche sapore della terra natia. Se n’è parlato, al Salone del Gusto, nella tavola rotonda con Andrea Pieroni, docente di Etnobotanica, Rossella Cevese, dell’Università di Verona, Sebastiano Ceschi del Cespi e altri studiosi. “Sono soprattutto erbe e spezie - spiega Pieroni - a diventare veicoli d’identita, oltre che insaporitori e, molto spesso, medicine”. E a rafforzare l’identità di chi li prepara e li mangia “c’è anche la loro narrazione. Gli immigrati sono spesso fieri di spiegare che cosa mangiano, e perché”. Come le donne della comunità marocchina di Verona, che si preparano a vicenda, quando una di loro ha un figlio, la “rfisa con msakhn”, un piatto che si prepara con una spezia, lo msakhn, portato direttamente dal Marocco, irrinunciabile perché nella credenza popolare ferma l’emorragia e ridona fertilità, o i lavoratori senegalesi di Bergamo, che - secondo Ceschi - “mangiano i loro piatti tipici, qui in Italia, solo se viene la moglie a far loro visita. Se no cucinano all’italiana”.
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