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L’ANALISI

Delivery, rinnovamento, sala: l’analisi (del professor Max Bergami) della ristorazione che riparte

Il professore della Bologna Business School sulla ristorazione post Coronavirus, nei temi fondamentali, dal servizio allo sviluppo imprenditoriale
MAX BERGAMI, RIPARTENZA, RISTORAZIONE, Non Solo Vino
Il prof Max Bergami analizza la situazione della ristorazione che riparte

Non esiste una ricetta per la ripresa perfetta della ristorazione italiana: in molti sono ripartiti, pur fra mille problemi ma con qualche buon risultato, mentre altri sono in profonda difficoltà, e qualcuno addirittura non riuscirà nemmeno a riaprire. Cosa succede, quindi, a questo settore, di cui tanto si è parlato in questi mesi? Ad analizzarlo, ci prova Max Bergami, dean di Bologna Business School e professore ordinario di Organizzazione Aziendale nell’Università di Bologna, è tra i pochi studiosi italiani che - da economista e da buongustaio - si dedicano da tempo all’analisi dei modelli di business delle imprese ristorative. Che delinea nella sua analisi, come riporta nel sito del Congresso di Cucina d’Autore “Identità Golose”, tre punti critici della ristorazione italiana alle prese con la ripartenza, che segnano altrettante questioni aperte: la fascia media ne uscirà danneggiata, e dovrà rinnovarsi, il mercato verrà depurato dalle improvvisazioni, e la sala acquisterà sempre più importanza.

“Il futuro è molto incerto. Sicuramente - sostiene Bergami - tanti hanno preso una forte botta, ma non con la stessa intensità ai vari livelli della ristorazione. Prendiamo ristorantini easy, pizzerie al taglio, “kebbaberie”: hanno un modello di business molto flessibile, clientela giovane, sono poco esposti in termini di investimenti. Non soffriranno più di tanto. Poi ci sono, all’opposto, gli stellati, o comunque i locali posizionati nella fascia medio-alta e alta. Credo che anche loro, in prospettiva, non dovrebbero avere enormi problemi; so che qualcuno oggi traballa un po’, ma è normale. Per loro il distanziamento sociale non è una novità, non hanno mai avuto un tavolo sopra all’altro. I problemi seri si presenteranno, invece, per la ristorazione intermedia, alle prese con una duplice questione: le misure di sicurezza e i problemi economici del segmento di clienti di riferimento; si vedrà a settembre, non subito, perché tra iniezioni di liquidità e cassa integrazione le imprese ora sono riuscite bene o male a tirare avanti, c’è stato un rallentamento generale che, nell’insieme, non ha impedito la ripartenza. Gli effetti reali della pandemia - dice - emergeranno dopo l’estate. Si tratterà anche di capire quando il Covid-19 si fermerà o tornerà a galla; solo dopo una soluzione della crisi sanitaria partirà una vera normalizzazione”.

E, come spesso è accaduto in questi mesi, dalla ristorazione il collegamento al turismo è inevitabile: “discorso a parte merita la questione del turismo. Ancora una volta, non saranno i “big” a essere granché penalizzati. Guardando invece a una fascia più bassa, in termini di spesa media, la contrazione della domanda turistica, soprattutto quella internazionale, è fatto grave. Anche qui, questa crisi si somma al problema preesistente dell’eccesso di offerta: la “popolarità” della cucina ha fatto sì che vi siano state in questi anni aperture poco ragionate, senza ossigeno sufficiente per resistere o basate su modelli di business improvvisati. Sono azzardi che ora vengono a galla e diventano un monito: attenzione a investire i risparmi di una vita, la liquidazione o l’eredità della zia in un’impresa ristorativa. È bene penarci perché un ristorante non è una cosa semplice, anzi è molto difficile dal punto di vista gestionale”.

Altro tema affrontato da Bergami è quello che riguarda l’offerta dentro al piatto, ossia lo stile di cucina. Probabilmente la spettacolarizzazione della cucina, prevalentemente in televisione, ha creato in molti consumatori l’aspettativa di un certo tipo di piatti, e per i ristoratori quindi di adattarsi a questo modo di fare cucina. Mentre oggi, forse, sarebbe tempo di tornare a qualcosa di più semplice e lineare. “A volte mi chiedo: perché? Perché questo accostamento? Perché questa presentazione barocca? Credo - sottolinea Max Bergami - che davvero sia ora di andare verso una semplificazione, che non significa banalizzazione né freno alla creatività, ma evitare scelte fini a sé stesse. Questa fase può rappresentare l’occasione per ritrovare maggior purezza dei piatti, nel medio periodo quindi potrà venirne fuori anche una tendenza positiva”.

Se c’è qualcosa che, invece, è esploso durante il lockdown e non è destinato a tornare nella sua “nicchia”, è il delivery: “può avere un futuro? Credo proprio di sì. Beppe Palmieri (restaurant manager e sommelier della tristellata Osteria Francescana, dello chef Masssimo Bottura, ndr) con Panino Mini-Market ha fatto una performance straordinaria durante la pandemia, diventando un esempio e un monito per tanti. La tuta gialla, i prodotti, le consegne door-to-door, le storie su Instagram ... Fantastico. Poi penso a Gianpaolo Raschi (chef del ristorante Guido di Rimini, ndr), che durante il lockdown ha tenuto aperto il proprio laboratorio consegnando per la provincia di Rimini piatti deliziosi. Lui aveva capito già da prima come la forza della cucina creativa sia oggi nel basarsi sul prodotto, nell’essenzialità, nel legame col territorio, nella semplicità, senza voler stupire a tutti i costi”.

“La ristorazione italiana - continua Bergami, passando ad analizzare la situazione dello sviluppo imprenditoriale della ristorazione del Belpaese - ha avuto un certo sviluppo imprenditoriale in questi ultimi anni, ma senza crescere dimensionalmente più di tanto. Ormai molti nostri chef hanno il proprio next door; penso a I Banchi di Ciccio Sultano, all’Uovodiseppia di Pino Cuttaia o a Il Clandestino di Moreno Cedroni: luoghi magici, ma non arrivano al “peso” dei grandi gruppi francesi o degli Hospitality Management Group americani. Per seguire le orme di questi ultimi, serve una modalità diversa. Occorre acquisire la consapevolezza di dover aggregare al proprio team professionalità e competenze complementari, tra chi si occupa di finanza, chi di logistica, chi di marketing; poi la gestione delle risorse umane, l’approvvigionamento centralizzato, lo sviluppo del brand, la formazione di sala e cucina. Uno che si sta muovendo bene in Italia è certamente Enrico Bartolini. Al di là de Le Calandre, gli Alajmo fanno cose bellissime, come a Parigi, a Venezia e a Marrakech, ma potrebbero crescere molto di più. Poi - puntualizza - c’è anche da fare questa osservazione: nei ristoranti di Alain Ducasse nel mondo non è che venga proposta una cucina necessariamente sorprendente, non c’è la necessità di stupire sempre con la creatività: sono locali con un ottimo servizio dove si mangia molto bene, grazie a piatti comprensibili. Secondo me noi siamo ancora a metà del guado in questo senso”. Ma c’è anche un motivo culturale, per cui l’Italia non presenta grandi gruppi di ristorazione: “l’assenza di catene di locali è legata alla cultura del nostro territorio. Le grandi organizzazioni probabilmente non sono un modello adatto a questo Paese. Penso a quello che ha fatto Eataly: ogni store ha un’offerta ristorativa diversa, nemmeno lì c’è replicazione. E dunque ragionevole concludere che è l’Italia in sé a essere così. Quindi le prospettive reali di sviluppo dimensionale stanno semmai nell’allargamento internazionale della nostra cucina. In questo senso, il modello delle Osterie Gucci di Massimo Bottura è molto interessante; ho sempre pensato che retail della moda e dell’alta ristorazione potessero trovare un punto di incontro. E anche il caso di Niko Romito con i Bulgari Hotels and Resorts: a novembre dello scorso sono stato al suo ristorante di Shanghai e ho mangiato italiano meglio di quanto non mi capiti spesso qui. Non è un risultato da poco. Un’altra esperienza interessante è quella dei Cerea, che stanno proponendosi per la ristorazione aziendale. È uno sviluppo da seguire. Loro non ne parlano molto, perché sono intelligenti e sanno che esiste un rischio di aspettative troppo alte, dovuto al fatto che qualcuno possa aspettarsi di mangiare in azienda come al Da Vittorio a Brusaporto”.

Last but not least, il servizio: per concludere l’analisi, Max Bergami tocca il tema dell’esperienza e dell’accoglienza, e “la crescente importanza del servizio. Se ti prendi la briga di andare in un ristorante anche con questi chiari di luna, ben sapendo che c’è un pur minimo rischio perché si è a contatto con gli altri, devi avere una bella esperienza, vuoi essere trattato bene. Vuoi esser rassicurato e coccolato. Serve insomma una sala che sappia mantenere le promesse che fa. Come dicevo, sono osservazioni banali, ma la possibilità di superare questo momento c’è e dipende soprattutto dagli imprenditori della ristorazione, perché non mi aspetto troppo dagli aiuti pubblici”.

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