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Economia / La Nazione / Il Giorno / Il Resto Del Carlino

"Le griffes del vino non bastano per vincere". Emilio pedron (Giv): "Dobbiamo riuscire a far bere più bottiglie di qualità a prezzi accessibili o si chiude bottega" ... Producono e vendono ogni anno 65 milioni di bottiglie, di cui il 70% esportate in oltre 65 paesi del mondo (“l’anno scorso, anno nero, la percentuale è scesa al 67%”, chiosano con pignoleria). Dire che è una azienda ‘marketing oriented’ è quasi un eufemismo. Il Gruppo Italiano Vini (Giv) è il maggior gruppo vitivinicolo italiano (235 milioni di euro il consolidato ’03), possiede 13 cantine dalla Valtellina alla Sicilia, 20 marchi di fama tra cui Melini in Toscana, Fontana Candida in Lazio, Lamberti e Santi in Veneto, Rapitalà in Sicilia e qualcosa come 1100 ettari di vigneti al sole del Belpaese. E’ una Spa che distribuisce i suoi dividendi non ad azionisti privati, ma alla cooperazione rossa emiliano romagnola (Civ, Riunite, Cevico) e a quella bianca triveneta (Cantina sociale Mezzocorona e Cantina di Soave). La mission è investire in Italia e vendere in tutto il mondo, puntando sulla fascia di medio-alta qualità, cioè le bottiglie dai 4-6 euro, 6-9 dollari, 3-5 sterline, quella dove più forte è la competizione. Nella sede veronese del Giv Emilio Pedron, direttore generale, studia le strategie per continuare a vendere vino italiano in tutto il mondo. Il 2003 è alle spalle, coi suoi bilanci neri per l’enologia nazionale: -16% di export in quantità, -3,2% in valore. Nel suo grande, il Giv ha fatturato il 5% in meno sui mercati esteri, ma – dice Pedron – “il 2004 è partito bene, con un 6-7% in più rispetto a fine 2003. Però la campana è suonata, bisogna mettersi l’elmetto e prepararsi alla guerra”.
Le vostre strategie di contrattacco?
“Partiamo dall’analisi della crisi. Ci sono motivi contingenti: la svalutazione del dollaro, la crisi dei consumi, l’attacco forsennato di paesi come l’Australia che hanno pianificato l’invasione dei mercati con politiche di dumping che li portano ad offrire le loro bottiglie a 1 euro alle catene della grande distribuzione, che le rivendono a 1,99, lucrando così alti margini”.
I motivi strutturali?
“Non è vero che il mercato del vino va male ovunque: il mondo cresce, Inghilterra e Germania aumentano del 4-5%, è l’Italia che va male”.
E qui veniamo ai mali del Belpaese…
“Riassumibili in tre punti. Dal ’97 ad oggi il prezzo all’origine dei vini Doc italiani è cresciuto del 60%, senza un apprezzabile aumento della qualità, ma solo sull’onda dello sviluppo, del boom, della moda. La struttura vitivinicola è sempre la stessa, ingessata, bloccata da un Far-west di norme che gli altri paesi, nostri competitori, non hanno. Insomma noi combattiamo con le mani legate. Infine a causa di una legislazione sui Doc sempre più restrittiva, finisce per mancarci la massa critica per competere sui mercati mondiali”
Adesso veniamo alla terapia, come si cura il malato?
“Anche qui su tre fronti. Lavorare per migliorare la qualità e insieme contenere i costi per produrle; puntare sulle aree vocate dove c’è quantità di qualità, insomma dove si fa tanto vino buono, vedi la Sicilia, il Salento. Crescere dentro la Grande distribuzione europea e mondiale con una politica di marca”
Insomma ristoranti ed enoteche non bastano più? E i vini-mito, le grandi griffes?
“Le grandi griffes sono servite a ridare immagine e prestigio al nostro paese, ed è stato un bene. Però alla lunga non c’è stato l’effetto traino sul resto della produzione. Dobbiamo riuscire a far bere più vino di qualità alla gente a prezzi più accessibili, altrimenti qui si chiude bottega. La strategia di rilancio per la nostra produzione di medio-alta qualità passa inevitabilmente attraverso gli scaffali della Grande distribuzione dove noi stiamo impostando una politica di marca per far capire al consumatore che con 5 euro può bere bene un Chianti o un Nero d’Avola senza svenarsi”.

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