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PANDEMIA E TURISMO

Effetto “Green Pass”: cancellate in poche ore il 30% delle prenotazioni “enoturistiche”

L’avvocato Marco Giuri: “le aziende chiedono lumi. Tanti italiani non hanno la certificazione, dall’estero non sanno se la loro vale in Italia”
ENOTURISMO, GREEN PASS, MARCO GIURI, vino, Italia
Enoturismo, caos Green Pass (Ph: Can't Forget Italy_Archivio Ente Turismo LMR)

Se l’estensione dell’uso del Green Pass che scatterà in Italia dal 6 agosto, come previsto dal decreto 105, per accedere a molte attività al chiuso (musei, ristoranti e così via), ha avuto il desiderato effetto di far crescere le prenotazioni per i vaccini contro il Covid-19, dall’altro ha avuto l’indesiderata (ma prevedibile) conseguenza di far crescere a dismisura le disdette di prenotazioni turistiche in alberghi, parchi divertimento e anche per le cantine votate all’enoturismo. Con tanti operatori che, in poche ore, hanno visto cancellare il 30% delle prenotazioni delle attività delle prossime settimane. Come racconta, a WineNews, l’avvocato Marco Giuri, alla guida dello Studio Giuri di Firenze e tra i massimi esperti in tutto quello che riguarda il diritto che ruota intorno al mondo del vino e della ristorazione. “L’enoturismo, come abbiamo detto spesso, è un settore articolato fatto di ristorazione, degustazioni, visita in cantina, e quindi soggiace in parte alle regole sulla ristorazione, ma anche a quelle che regolano l’accesso a musei e delle mostre. Compreso il Green Pass. E negli ultimi giorni - spiega Giuri - diverse aziende ci hanno contattato chiedendoci lumi, dicendo che stanno arrivando centinaia di disdette, soprattutto dall’estero ma anche dall’Italia. Per due motivi principali, come è facile intuire. Sul fronte italiano, c’è chi per mille motivi non ha il Green Pass e non vuole sottoporsi neanche al tampone molecolare nelle 48 ore (previsto in alternativa per chi, per esempio, non ha ancora potuto effettuare il vaccino, ndr), mentre chi arriva dall’estero disdice perchè non capisce bene cosa sia questo Green Pass italiano, o magari ha una certificazione simile nel suo Paese, anche in Ue, ma non ha certezza sul fatto se valga o meno all’estero, anche se la normativa europea dice che fino al 12 agosto possono valere anche certificazioni che non prevedono il Qr Code come strumento di controllo, come invece è per quella italiana. E poi - aggiunge ancora Giuri - si apre tutto l’altro tema, ovvero che l’Italia non riconosce le certificazioni dalla Gran Bretagna, per esempio, e ancora c’è il tema della Russia che ha una vaccinazione come Sputnik non universalmente riconosciuta, e poi più semplicemente il problema che se arriva il finlandese o il giapponese di turno che mi presenta un documento nella sua lingua, diventa difficoltoso andare a verificare”.
Un caos normativo sul quale, oggettivamente, le aziende possono fare ben poco, se non gestire al meglio la questione Green Pass. E per farlo, spiega Giuri, “le aziende devono individuare delle persone addette alla verifica del Qr Code, che avviene attraverso un’app che si chiama Verifica C19 che si scarica sul sito del Ministero della Salute, e che permette di controllare autenticità e validità della certificazione. La legge dice che si può anche chiedere un documento di identità per verificare la corrispondenza, ma è una facoltà, non un obbligo. I soggetti che vengono delegati al controllo, invece, devono essere formalmente incaricati e formati per le attività di verifica. Per la lettura del Qr Code italiano non ci dovrebbero essere problemi, mentre ci potrebbero essere delle incompatibilità con quelli di altri Paesi Europei, quindi chiaramente se ci fosse il cartaceo sarebbe importante. In ogni caso, tutto questo comporta una certa gestione da parte delle aziende, ed un minimo di formazione”.
Per semplificare, c’è chi potrebbe pensare di chiedere il Green Pass a chiunque acceda all’azienda, tanto per una visita in cantina che per mangiare al ristorante aziendale, o magari solo per comprare qualche bottiglia. Ma questo non è possibile: “il Green Pass non si può chiedere per tutte le attività, ma solo per quelle previste esplicitamente dalla legge. Per esempio, non si può chiedere a chi va nello shop aziendale per comprare vino, o viene per fare una degustazione all’aperto. Sarebbe una violazione della privacy di cui poi l’azienda dovrebbe rispondere”.

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