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Finanza & Mercati

Lambrusco e Sangiovese, il canguro salta italiano… Le vigne di chardonnay, pinot noir e cabernet sauvignon non hanno ancora dieci anni che già i colossi internazionali del vino sono pronti a sostituirle con altri vitigni in nome di nuovi gusti e nuove mode. E’ quanto sta accadendo in Australia, una nazione che ha costruito una florida e redditizia industria vitivinicola dal nulla, mettendo ko non poche piccole aziende europee. Certo i metodi di vinificazione, tante volte non sono proprio ortodossi. Anche nel Paese dei canguri si usa dare sapore di legno al vino non lasciandolo riposare nelle barrique per alcune stagioni, ma buttando trucioli di rovere in grandi botti d’acciaio. Un metodo più spiccio, che consente di lavorare sulle grandi quantità, trascurando a volte la qualità. Il vantaggio sono i prezzi. Competitivi come nessun piccolo viticoltore italiano saprebbe fare. Tanto che una bottiglia di Yellow Tale, uno dei rossi australiani più famosi e di più alto livello, arriva sui banchi dei supermercati italiani a 6,90 euro (ma ce n’è a prezzi ben inferiori). Per l’industria italiana del vino, che già non gode di buona salute, è in arrivo a breve un’altra temibile sfida. Australia e Nuova Zelanda vogliono diversificare la produzione, riservando uno spazio importante anche a bottiglie di nicchia. Così hanno deciso di piantare vitigni tipici italiani, come fermentino, sangiovese, marzemino, lambrusco e sagrantino da destinare soprattutto all’area del Pacifico. Primo mercato per quote di importazione di vini australiani e neozelandesi, ma area strategica anche per l’Italia (l’export di spumanti italiani verso Giappone e Cina è in costante crescita, per esempio). Il tema è caldissimo e all’Osservatorio del Salone del Vino di Torino, che si terrà dal 27 al 30 ottobre prossimi, è in programma un dibattito con interventi eccellenti. Solo che per vincere sui mercati internazionali le parole non bastano.

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