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Finanza & Mercati

In nome del rosso ... Cantine ricolme di centinaia di migliaia di bottiglie. Altrettante bottiglie invendute nella ristorazione, da tempo indiziata di grandi responsabilità (ricarichi troppo alti, modesta conoscenza e comunicazione inadeguata verso il cliente). Ripresina, dopo il crollo tra il 2002 e il 2003, dell’export che resta il principale canale di sbocco dei vini italiani. In compenso la clientela straniera, quella che spende di più vuole il vino griffato, è in calo. Vendemmia 2005 di quantità minore (15%) ma di qualità mediamente buona, anche se non omogenea. Consumatori divisi nettamente in due fasce: quelli che non comprano bottiglie sopra 3 euro e quelli che sono interessati solo a vini oltre 10 euro. In mezzo è scomparso il consumatore medio e, con lui, sono diventati introvabili i vini di questa fascia. Wine bar e locali di mescita che crescono come funghi nel Triveneto, dove fanno moda e tendenza, ma segnano il passo nelle grandi aree urbane, dove c’è meno tempo e il vino non è espressione di elevazione sociale. Critica enologica corrente alternata, divisa fra esaltazione dei vitigni autoctoni e del “varietale” e apologia della barrique (peraltro un po’ meno di moda) e del gusto del vino somiglia sempre di più a un ginepraio nel quale è complicato avventurarsi.
Un punto però sembra certo e chiaro: il problema non è produrre vino buono, ma venderlo bene. Che non vuol dire al prezzo che fa comodo a chi lo produce, ma a una cifra che sia percepita e valutata come giusta e quindi accessibile da ogni potenziale consumatore, seduti al wine bar come nella grande distribuzione, in enoteca e nei negozi tradizionali. Una strada, questa, oggi, certamente consentita dalle possibilità produttive del nostro paese, che ha visto negli ultimi anni una crescita esponenziale della qualità. Il discorso sulla qualità sembra comunque scontato, considerati anche gli investimenti fatti dalle aziende serie in ricerca. Innovazione, cura dei vigneti. Al tempo stesso, l’esaltazione di tutto ciò che è autoctono, locale, microterritoriale, allontana il discorso da un’evidenza inconfutabile. Cioè che dobbiamo ringraziare soprattutto i vitigni alloctoni (cabernet sauvignon, chardonnay, merlot in testa) se il vino italiano ha varcato i confini locali e si è affermato nel mondo. Con tutto il rispetto per i vitigni minori o domestici come Rondinella, Magliocco Canino o Monica di Sardegna, tutti appassionanti espressioni di terroir e anche capaci di dare vita a grandi vini ma inevitabilmente “ a diffusione limitata”.
Poiché, come tutte le medaglie, anche quella del vino ha due facce, c’è anche quella dei consumatori da considerare. Da anni si sente dire un po’ dappertutto che “si beve meno ma si beve meglio”: un adagio talmente ripetuto da essere diventato quasi banale. Sui gusto vinicoli degli italiani non ha infatti senso trinciare sentenze. Se ragionassimo seriamente sui volumi di sfuso commercializzati ci renderemmo conto che, seppure diminuita, l’area del cosiddetto”sommerso” è ancora una costante nelle scelte dei nostri connazionali. Sul calo dei consumi, invece, i numeri parlano chiaro, nel 2004 si è verificata un’ulteriore riduzione del consumo procapite, caduto per la prima volta al di sotto dei 50 litri (erano 105 nel 1975). Bisogna dedurne che nell’arco di trent’anni l’Italia si è trasformata in terra di ricercati e appassionati conoscitori, se non degustatori oculati e attenti? E’ vero, ma solo in parte. Dopo anni di ricerca del vino di moda, scelto più per esibizione che per reale apprezzamento, la tendenza del consumatore moderno sembra spostarsi verso prodotti di aziende forse meno conosciute e dai nomi meno roboanti ma che garantiscono un buon rapporto prezzo-qualità, pur resistendo un interesse verso vini molto connotati, dai nomi rassicuranti, dal gusto elegante e riconoscibile. E’ comunque opportuno dire “sembra”, visto anche il successo di marchi che sfornano decine di milioni di bottiglie, vendute a prezzi molto bassi e sostenute da martellanti campagne pubblicitarie sui media.
Se, come dicevano gli antichi nel vino c’è una verità, la più evidente è che in questo mercato oggi regna sovrana la confusione. A cominciare dagli scaffali dei supermercati, dove si trovano anche vini importanti, venduti a oltre 15 euro, accanto ai vini in promozione ad un euro e mezzo. Confusione avvalorata dalla frammentazione del mondo produttivo e, a parte le solite eccezioni, dalla scarsa impronta comunicativa della grande parte delle aziende medie e piccole. Cantine che spesso preferiscono baloccarsi dietro a blasone ed etichetta piuttosto che informare, comunicare e descrivere chiaramente ciò che producono e vogliono vendere.
Dagli Stati Uniti, Brian Larky, importatore di vini italiani d’eccellenza e profondo conoscitore della nostra realtà vitivinicola, conferma che la “temperatura” del mercato sta cambiando, e il che consumatore Usa preferisce orientarsi verso prodotti meno griffati ma più innovativi. Come, per esempio, Lagrein, Refosco, Moscato giallo. Larky è un accanito sostenitore delle potenzialità dell’Italia vinicola: “Avere una straordinaria ricchezza di varietà, che nessun altro paese produttore può vantare, men che meno del Nuovo Mondo - dice - Questa versatilità produttiva vi consente di creare vini di grande carattere, fuori dagli schemi in cui per molti anni avevano creduto. Non potete ignorare che oggi negli states si fanno grandi scoperte di vini ma anche di aziende nuove, non più legate a immagini griffate o a nomi altisonanti che ci hanno emozionati nel passato”. E che possono certo continuare a emozionare, purché vi sia la presa d’atto di una nuova realtà produttiva. Una posizione di chiara valorizzazione dei vitigni autoctoni, quella appunto di Larky, comunicata anche attraverso il suo sito www.dallaterra.com.
In tale contesto, ogni contributo di esperienza concreta e di idee diventa una specie di luce in fondo al tunnel. Un effetto del genere hanno avuto le ultime esternazioni di Angelo Gaja, uno degli uomini che dalle Langhe hanno portato l’immagine del vino piemontese e italiano a livelli di eccellenza più che ragguardevoli in Italia e, soprattutto, nel mondo. “Non è automatico - dice Gaja - che i vini Doc, Docg e Igt debbano essere di qualità elevata. Le denominazioni si propongono di garantire l’origine e non anche un livello di qualità. Questo resta prerogativa del produttore e non avviene per decreto del legislatore”. Quali, allora, categorie in cui dividere l’universo del vino? “Il mercato distingue fra vini originali e commerciali. I primi sono quelli che hanno la capacità di sorprendere, grazie a molti fattori, fra cui provenire da un territorio altamente vocato, derivare da una varietà poco diffusa, rispondere a una particolare visione del produttore. Insomma, vini di personalità e carattere, spesso prodotti in piccola quantità e appartenenti a tutte le fasce di prezzo”.
E senza il complesso del vitigno autoctono. Basti pensare al Sassicaia, al quale è da sempre riconosciuto un carattere di toscanità, nonostante non contenga una goccia di sangiovese. E i vini commerciali? “Sono vini ben fatti che, sebbene non sempre riescono a emozionare, non tradiscono neppure le attese; sono rintracciabili ovunque sul mercato, offrono una qualità che ci si aspetta dal prezzo, sono prodotti in volumi crescenti e assecondano il gusto del consumatore.
Lasciano Gaja alla presentazione dei suoi vini al Queue de Cheval di Montreal, uno dei ristoranti più belli del Canada, una grande steak house con gigantesca cantina (20 mila etichette) dove la carne è lasciata frollare fino a 20 giorni con il sistema del dry aging, una sorta di “invecchiamento” a temperatura costante e climatizzata, che la porta al punto giusto per essere gustata appieno. L’invito di questo paradiso canadese del palato è della tavola dice testualmente: “Nulla di meglio che avere l’opportunità di godere una bottiglia di un grande vino alla presenza del produttore. Siamo orgogliosi di ospitare la quarta generazione del winemaker Angelo Gaja, in esclusiva per i nostri clienti”. Ovviamente Limited space available, una serata per pochi. Un’operazione di marketing impensabile in Italia. Non tanto per la quota di accesso (500 dollari canadesi a testa) quanto soprattutto per l’incapacità di considerare investimento una cena di sei portate abbinate ai grandi vini di un principe della botte. (arretarto di "Finanza & MercatI" del 22 ottobre 2005)
Autore: Alberto Schieppati

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