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MERCATO AGRICOLO

Guerra e siccità fanno volare i prezzi delle commodities agricole: vola il Brasile, “paga” l’Italia

“Forum Agrifood Monitor” n. 7 by Nomisma: il Belpaese sempre più dipendente dalle importazioni, dal frumento al mais, dal latte all’olio
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Un campo di grano nella foto di Petra via Pixabay

A confronto con i massimi del 2022, i prezzi delle commodities agricole sono tornati sui valori precedenti lo scoppio del conflitto russo-ucraino, ma si attestano comunque su livelli decisamente superiori a quelli del 2021, e lo stesso andamento si riscontra per i prodotti energetici, con i prezzi del gas crollati dai picchi della scorsa estate, pur rimanendo tre volte superiori rispetto alle medie di lungo termine, come emerge dal “Forum Agrifood Monitor” n. 7, organizzato da Nomisma, per comprendere le possibili evoluzioni della filiera agroalimentare. L’analisi mostra dinamiche sui mercati internazionali profondamente mutate, con il Brasile che scala posizioni nello scacchiere mondiale dei produttori di prodotti cerealicoli, e l’Italia che, da Paese trasformatore, paga invece il conto della corsa dei prezzi e delle difficoltà climatiche con cui deve fare i conti l’agricoltura di tutto il mondo.

Intanto, secondo la Fao, le superfici in Ucraina seminate a cereali invernali per il raccolto 2023 risultano inferiori del 40% rispetto alla media del 2017-2021. Una riduzione che coinvolge anche il mais, coltivazione per cui si prospetta una produzione di circa 21 milioni di tonnellate, contro i 34 della media 2017-2021. A questo si aggiunge la scadenza dell’accordo, prevista per il 18 marzo, per il “grano del Mar Nero”, stipulato con Russia, Turchia e Onu.

Anche l’Argentina - che assieme all’Ucraina incide sull’export mondiale di mais per il 35% - a causa della siccità prevede per il 2023 una riduzione sensibile sia nella produzione sia nell’export. Questa dinamica, sottolinea Nomisma, viene compensata a livello globale dalla crescita del Brasile, che nel 2022 è diventato il primo esportatore di cereali invernali assieme agli Stati Uniti. Artefice e protagonista dello scatto in avanti del Brasile è stato proprio il mais (+230%), per il quale l’Italia ha registrato nello stesso anno - complice la perdurante siccità che ha interessato le zone più vocate a questa coltivazione - un raccolto più basso del 24% rispetto alla media 2017-2019, praticamente pari alla metà rispetto al picco avuto nel 2014.

“Nel panorama dei top esportatori mondiali di prodotti agroalimentari, il Brasile rappresenta il Paese che più ha guadagnato da questo scenario fortemente condizionato da tensioni geopolitiche e avversità climatiche”, sottolinea Denis Pantini, Responsabile Agroalimentare di Nomisma. “Nell’anno da poco terminato il Brasile ha messo a segno una crescita a valore del proprio export agroalimentare di oltre il 50%, superando i 126 miliardi di euro, e conquistando così il secondo posto assoluto, dopo gli Usa, nel ranking mondiale. La fiammata nei prezzi ha infatti favorito gli esportatori di commodities agricole, penalizzando invece i Paesi trasformatori, come l’Italia: basti pensare che, mentre il Brasile ha ottenuto un surplus nella bilancia commerciale agroalimentare di 113 miliardi di euro (contro i 73 dell’anno precedente), l’Italia dai 4 miliardi di euro del 2021 è tornata in negativo, dopo diversi anni di avanzo, di 1,4 miliardi di euro”.

Per l’Italia, quando si parla di autosufficienza delle filiere, la questione non riguarda però soltanto il mais visto che per il frumento, l’orzo, la soia, carni, oli vegetali, ma anche latte, zucchero e frutta in guscio il fabbisogno del Paese risulta superiore alla produzione nazionale. Negli ultimi dieci anni, a fronte di una produzione agricola e di consumi interni stazionari, l’export italiano è cresciuto a valore del 70%, posizionando il nostro Paese al settimo posto nella classifica degli esportatori mondiali nel comparto food & beverage. Alla luce del gap nella disponibilità di materie prime agricole, anche le importazioni sono parallelamente cresciute, e la dipendenza dell’Italia dall’estero pone il Paese in una condizione di maggior precarietà e debolezza in contesti di estrema volatilità - sia dei prezzi sia degli scambi commerciali - come quello attuale.

Per quanto il 57% del nostro import agricolo derivi da paesi dell’Unione Europea, che rappresentano una sorta di “scudo” a protezione della sicurezza alimentare nazionale, per alcuni prodotti primari la dipendenza da aree extra-comunitarie è ancora alta: si pensi in particolare alla soia, all’olio di girasole, al grano duro. ”Non ci sono dubbi sul fatto che l’attuale situazione geopolitica mondiale porterà nei prossimi anni a rafforzare i legami e gli scambi commerciali tra blocchi di paesi amici” riprende Pantini. “L’obiettivo, secondo l’analisi prodotta da Nomisma, sarà quello di ridurre quei rischi di rotture nelle catene di approvvigionamento che da due anni a questa parte hanno generato, da un lato, rilevanti aumenti nei costi di produzione delle imprese, e dall’altro, fiammate inflattive nei prezzi al consumo di generi alimentari che non si vedevano da oltre trent’anni, con effetti a cascata sul carrello della spesa degli italiani”.

Contestualmente, sarà altrettanto fondamentale, se non incrementare, quanto meno mantenere i livelli attuali di produzione agricola nazionale con la consapevolezza che il tessuto produttivo agricolo italiano continua ad essere troppo frammentato. Il 40% delle aziende agricole italiane presenta una superficie coltivata inferiore a 2 ettari e il 27% delle aziende produce esclusivamente per autoconsumo. A questo si aggiunge il fatto che solamente il 23% delle aziende agricole si trova inserito stabilmente in “filiera”, vale a dire “strumenti contrattuali” in grado di mitigare i rischi della volatilità di prezzi e mercati: il 21% conferisce ad organismi associativi, il 2,5% vende attraverso accordi pluriennali con industria e distribuzione. Accanto a questo, il 33% della superficie agricola italiana è soggetta a forte erosione, mentre ogni giorno vengono consumati mediamente 19 ettari di suolo e in ultimo l’area mediterranea - e in particolare le regioni del Sud Italia - rappresentano un ”hot spot” del cambiamento climatico, dove negli ultimi sessant’anni si sono registrati gli aumenti più elevati delle temperature medie annuali, con effetti nefasti in termini di avversità climatiche, tra cui quella della siccità.

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