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Il Giornale

“Fuggiasco”, il vino che va a ruba. Al carcere di Velletri una tenuta Doc: l’enologo è un detenuto in semilibertà ... Di quattromila espositori, uno prima di recarsi al 38° Vinitaly ha dovuto chiedere a un giudice del tribunale di Roma il permesso di uscire dai confini della Regione Lazio, indicando motivo, durata del viaggio e hotel dove sarebbe sceso per dormire. Marcello Bizzoni, nel cui cognome è in fondo racchiuso il destino di una vita che ha toccato i 54 anni, è un enologo ma è anche un detenuto del carcere di Velletri, lui cittadino della cittadina laziale, che dallo scorso settembre è stato affidato ai servizi sociali. “Non ho ancora iniziato il conto alla rovescia. Il 24 gennaio 2000 la Cassazione mi condannò in via definitiva a 5 anni e mezzo per truffa, falso in bilancio e bancarotta”.
Bizzoni è a Verona perchè cura l’uva e il vino di un’azienda, la Piccola Società Cooperativa Lazzaria, bottiglie sul mercato 35mila, in pratica tutte vendute a 5 euro tramite le Coop di Lazio e Campania, che è l’espressione della casa circondariale di Velletri. Non solo: per la prima volta lo Stato italiano ha autorizzato una cantina a imprimere sull’etichetta il sigillo della Repubblica Italiana. E’ una storia di redenzione sociale, quasi paradossale se pensiamo alla politica salutistica del ministro Sirchia, il quale vorrebbe non solo non farci fumare (giusto), ma anche smettere di bere vino (sbagliato, è una questione di misura).
Le strade del carcere e quelle di Bizzoni si sono incrociate nel gennaio 2002. “La nuova gattabuia è stata eretta a inizio anni ’90 in piena campagna. Io invece ero un industriale del vino con alcune magagne economiche che cercavo di sanare imboccando delle scorciatoie. Sono un esempio vivente che il crimine non paga. Nel ’94 la Guardia di finanza si interessa a me, poi inizia il processo, poi l’appello fino al 24 gennaio 2000 quando, sorpresa, la condanna supera i tre anni. Faccio la valigia, salgo su un aereo e volo in Brasile dove però le cose vanno male e mi sposto a Lagos in Nigeria dove cerco di avviare un import di vini italiani. Zero pure lì. E a quel punto decido che era meglio tornare a casa. Mi costituii nel gennaio 2002 e finisco in cella a Velletri”:
E’ in un certo senso la svolta: “Io non sapevo nulla di quello che cresceva dentro e fuori la struttura, tra l’altro di massima sicurezza: due serre per gli ortaggi e le fragole, frutteti, vigneti e un oliveto. E dire che la zona era tutta coltivata a vite, sradicata per costruire la casa e poi in parte reimpiantata a Merlot e Cabernet, Malvasia e Sangiovese, Trebbiano e Chardonnay. Il fine non era l’autoconsumo, bensì il dare un lavoro al maggior numero possibile di detenuti, oggi una ventina su una popolazione di 350. tra le vigne lavora pure un omicida e uno che ci è andato vicino. Io venni chiamato nel settembre 2002 dal direttore Rodolfo Craia, oggi sostituito dal dottor Makovec. Aveva saputo che ero enologo e mi chiese se gli davo una mano ad avviare la cantina. E cantina fu, solo che lo Stato, nel caso del carcere, non può emettere fattura, così abbiamo formato una cooperativa e gli utili sono stati reinvestiti. Paghiamo regolari stipendi, 900 euro netti al mese, più i contributi, presto assumeremo altri due carcerati che ci verranno indicati dagli assistenti sociali”.
A Verona hanno presentato tre vini. I nomi denunciano l’origine: il “Quarto di luna” è uno Chardonnay (“Quarto e non luna piena perchè quando sei dentro il cielo lo vedi a riquadri”), le “Sette mandate” un Sangiovese e il Fuggiasco un Novello, già tutto bevuto in autunno”, diecimila bottiglie “andate a ruba”, effimero il vino nuovo come spesso lo sono le fughe di chi salta il muro di cinta: “Nessuno tra coloro che lavorano i campi si è mai dato alla macchia. Sarebbe facile, la rete è bassa, ma non converrebbe, perderesti tutti i benefici che hai ottenuto grazie alla buona condotta”. Il futuro? Olio, marmellate e miele.

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