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Il Giornale

Il vino italiano riconquista le tavole del mondo. Export aumentato del 4,4% nel 2004. La crescita non viene solo dai grandi nomi, ma anche da prodotti di fascia media ... Una notizia buona e una cattiva vengono e tutte due dal mondo del vino, e raccontano due storie ben diverse. Liquidiamo subito quella cattiva che più che altro sembra essere una storia di miopia. La Corte di Giustizia europea ha respinto il ricorso italiano contro la decisione della Commissione Ue di permettere a produttori stranieri di utilizzare nomi italiani per i fatti in Paesi come Australia, Cile, Sud Africa: i grandi concorrenti emergenti. Un autogol europeo, che colpisce però solo prodotti italiani. Le imprese del nostro Paese, comunque stanno già giocando in contropiede, registrando i nomi dei vini come marchi in tutti i grandi mercati del mondo. Poi all’interno dell’Unione europea, la Corte ha deciso di permettere ai greci di chiamare “Vinsanto” (in caratteri latini) il loro vino, ma ha vietato al Marsala di aggiungere l’aggettivo “ruby” riservandolo solo al Porto. Due pesi, due misure, sembrerebbe.

La notizia buona viene da Agrifood, che si tiene a Verona. E’ confermata la ripresa dell’export dei vini italiani nel 2004: più 4,4% in media nei primi undici mesi. Quelli da tavola e quelli di alta qualità sono cresciuti del 4,6 per cento. Tra i maggiori acquirenti delle bottiglie italiane ci sono la Germania, in testa in Europa, Gran Bretagna e il Giappone. L’altro grande mercato dell’export, il primo, sono gli stati Uniti.

“I mercati esteri sono in ripresa, anche se non si può parlare di euforia” ha detto al Giornale Enrico Viglierchio, direttore generale della Castello Banfi, 60 milioni di fatturato nel 2004, il 36% venduto in Italia, il 35% in Usa, il 15% in Europa e il 12% che rimane nel resto del mondo. Come per tutti i grandi esportatori, Banfi subisce i contraccolpi dell’euro forte, che rende la vita più facile ai paesi dell’area del dollaro.
Il bello è che a tirare la volata ai vini italiani non sono solo i grandi nomi, come Brunello, Morellino o Barolo: oggi a trovare più spazio sulle tavole di tedeschi e americani sono anche i vini di qualità media e mediobassa. Ed era tempo: i paesi emergenti stanno guadagnando spazio proprio in questa fascia. L’Italia produce annualmente 50 milioni di ettolitri, la fascia di alta qualità non copre più del 5-6 per cento. Entro il 2010 (in pratica: domani) l’Australia vuole arrivare a produrre 30-35 milioni di ettolitri: già oggi porta sulle tavole americane vini più amabili, adatti ai nuovi consumatori, quelli che vengono dai “soft drinks”, bottiglie della fascia dei 5 dollari, al più tra 5 e 10 dollari.

E se l’Italia diventa sempre più un riferimento per vini di qualità, negli ultimi anni, ha fatto un grande sforzo per promuovere un ‘immagine univa per i 35 mila produttori e le 210 etichette che cercano spazio sulle tavole americane ed europee. La via maestra, sostiene Viglierchio, è sostenere il marchio, che faccia da “ombrello” dando garanzia e sicurezza alle diverse qualità di vino vendute. E molte bottiglie sono di fascia media. Australia e Cile hanno vita molto più facile: 3-4 grandi aziende monopolizzano tutta la produzione con innegabili vantaggi di marketing.

L’altra sorpresa italiana viene dai bianchi: quando si parla di vino, tutti pensano al rosso. E invece viticoltori ed enologi hanno fatto un lavoro di riposizionamento che sta dando i suoi frutti. Se dalla California arrivano vini bianchi pieni e corposi, gli italiani hanno scelto di puntare sul Pinot come sinonimo di vino bianco italiano, leggero, di qualità, piacevole da bere. Tutta un’altra cosa rispetto ai vini bianchi di solo pochi anni fa. Prospettive? “Non dormire sugli allori, la concorrenza è molto superiore a dieci anni fa. Si sono fatti parecchi passi avanti per mettere a posto il patrimonio viticolo ed enologico. Ora dobbiamo preservare le denominazioni, più importanti ma soprattutto lavorare nelle fasce medie. E’ lì che si gioca la partita più importante dei prossimi anni”.

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