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Il Giornale

Melbourne, voglia di Italia ... Dalla disperazione degli emigranti alla maturità del mercato di oggi. Portelli e l’enoteca Sileno: “Il segreto è importare i prodotti e i vini top”... C’è tanta voglia di cucina italiana nel mondo, però non tutto brilla
e gira come dovrebbe. E non per
colpa dei nostri chef. Una settimana
al Wine & Food festival di Melbourne
per raccogliere tanti spunti,
per seguire Carlo Cracco (ristorante Cracco
a Milano, città gemellata con quella
australiana) e Luisa
Valazza, del Sorriso di Soriso in
Piemonte, mentre cucinano e tengono
lezioni a platee attente e curiose,
e per conoscere il meglio di
una metropoli a 16mila chilometri
di distanza.

Melbourne soffre la bellezza di
Sydney, la sua capacità di brillare
per iperboli, e le contrappone il
suo cuore - che a tavola è sinonimo
di tradizione - e la capacità di tenere
assieme almeno 180 lingue diverse,
un caleidoscopio che si riflette
anche a tavola visto che chi
ha radici inglesi non può certo vantare
chissà quale glorioso passato
culinario. Ed è quasi un guaio perché non c’è
filtro e tutto può risultare
fantastico senza la mediazione
di un forte cultura locale.
Cracco e la Valazza, ma anche il
veronese Roberto Anselmi con le
note del suo Capitelli, magico vino
dolce, hanno incantato, contribuendo
ad aumentare la richiesta
di qualità italiana in una città di
quasi quattro milioni di abitanti.
Sono momenti di eccezione di cui
potranno beneficiare chi lavora
sul posto e cerca di essere al passo
con i tempi. Come John Portelli,
classe ’56, titolare dell’Enoteca Sileno,
enoteca.com.au, una realtà
straordinaria, aperta da suo suocero nel 1953,
importatore dei biscotti
Plasmon e produttore sul posto
di amaro Ramazzotti. La licenza
per somministrare vino sarebbe arrivata
nel ’61 e l’enoteca più tardi
ancora, la prima in Oceania e gestita
con intelligenza. Intanto il vino
è solo italiano, 450 etichette, e da
nostre uve “perché non ha senso -
rimarca Portelli - importare chardonnay
e shiraz quando qui ne
producono a fiumi”.
E ora la scelta viene premiata dal
mercato: “Il segreto è credere nella
qualità: dal 2000 il nostro vino
ha sempre più successo e nella sua
scia oggi importiamo anche 40
grappe e diverse birre artigianali.
Poi c’è il parmigiano che avvolgiamo
pezzo dopo pezzo nel cotone
perché si mantenga, pasta Martelli
e Rustichella, riso Ferron, la scuola
di cucina”. Se aggiungiamo Panna e S.
Pellegrino abbiamo le icone
più diffuse del Made-in-Italy, sempre
figlie della singola iniziativa
privata che una volta si chiamava
disperazione e oggi imprenditorialità.
Il sistema statale invece latita anche
se da Essential, un emporio di
cibi, libri e casalinghi, essentialingredient.com.au, il manager ti
chiede di Tuttofood a giugno a Milano
tale la voglia di sapere cosa
c’è di nuovo da noi. E non mancano
i posti di una buona cucina tricolore
come Cafe Di Stasio, distasio.com.au, e Grossi Fiorentino,
grossifiorentino.com, però magari
ci scappa che la bistecca sia giapponese
e la carbonara abbia prosciutto
e tartufo nero, mentre da
Tutto Ben emozzarella e burrata siano
buone e australianissime. È
quasi ovvio che succeda perché se
dall’Italia non siamo in grado di
soddisfare la richiesta di mangiare
“garantito italiano”, ci penseranno
sul posto a soddisfare le attese.
E lì la cucina di successo è sinonimo
di cucina molecolare di stile
spagnolo, priva di qualsiasi introspezione
e contributo della cultura
e della personalità locali. Bravi
tecnici di laboratorio, ma tutto che
nella vecchia Europa abbiamo già
visto e mangiato,senza la novità di
ingredienti australi. L’Italia avrebbe
grandissime possibilità, solo
che i colleghi di tv e mediala vedono
frenata dal provincialismo di
chi si crede bravo per diritto divino
e non si accorge che realtà come
il Pellegrini’s bar, un espresso
da favola, cucina anni Cinquanta,
è un’icona di un’Italia che in patria
non esiste più. Solo che il nuovo
non l’abbiamo ancora esportato in
maniera sistematica e convinta come
hanno saputo fare i francesi.

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