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Il Giornale

Brindiamo alla retrocessione del guru Adrià ... Carissimo Granzotto, credo sia giunto il tempo - lei ne parla ormai da più di un anno - di riunire i soci del Circolo del Tavernello attorno al desco e festeggiare un evento che segna la definitiva vittoria dello spirito tavernelliano sulle ridicole ambizioni della cucina diabolica: il falso profeta Ferran Adrià titolare dell’incensato ristorante “El Bulli”, è stato finalmente detronizzato. A giudizio dell’ovviamente prestigioso The World’s 50 Best Restaurants Academy, egli non è più il migliore e più grande chef del mondo. Giustizia è fatta. A quando il brindisi? Matteo Barale

Povero Adrià, chissà come c’è rimasto male. Però, onestamente, se la tirava e aveva tirato troppo la corda. Il suo “El Bulli” chiuso per riposo sei mesi su dodici. Prenotazioni solo da un anno all’altro (nel senso che chi fa una reserva oggi si siede a tavola a fine aprile del 2011). E dopo tanto aspettare che magari un po’ di fame t’è pure venuta, ti vedi servire schiume, spume, schizzi, emulsioni, fiotti e spruzzi di sostanze alimentari sifonate e preventivamente immerse nell’azoto liquido, nel vuoto spinto o, gesumaria!, fritte nello zucchero. E non parliamo della cuenta: non dico che per un desinare in quattro se ne va il Pil della Grecia, però, insomma, tocca dar fondo ai risparmi. Eppure c’era - e forse seguiterà a esserci, perché no? - la coda. C’è infatti chi va al ristorante o in trattoria per mangiar bene sapendo cosa mette sotto i denti (e saremmo noi del Tavernello), c’è chi ci va perché un Ferran Adrià sostiene, senza nemmeno una complice strizzatina d’occhio, che la sua cucina esprime, cito: “Armonia, creatività, felicità, bellezza, poesia, complessità, magia, ironia, el espectàculo, provocation y cultura”. E la cultura, oltre ad avere un sapore strano, costa. Cambia il vento, caro Barale. La corona di re dei cuochi detenuta da Adrià è passata sul capo di uno chef danese, Renè Redzepi. Il quale non cucina con gli alambicchi, ma con i fornelli. Culinarie tradizionali, ancorché nordiche. Con ingredienti indigeni e dunque profusioni di pesci, crostacei, carni (compresa quella del simpatico bue muschiato) e vegetali iperborei. Curiosando nei suoi menù ho trovato un brodo di molluschi e briciole di pane. Gran buon segno, perché è un piatto di antico costume, franco da rivisitazioni o interventi fusion. Lo stesso, rustico e saporito, che Ismaele (ricorda, caro Barale? “Chiamatemi Ismaele”. L’incipit del Moby Dick di Herman Melville) ebbe per cena alla Locanda della signora Hussey, prima di imbarcarsi sul Pequod. Non solo in cucina, ma anche in cantina sembra proprio che dopo tanto svolazzar alto si stia tornando coi piedi per terra. Dicevano, al Vinitaly di Verona, cioè alla più importante fiera mondiale del vino, che sempre più di rado i degustatori e gli estimatori si esibiscono nella ridicola e teatrale sceneggiata del bicchiere fatto roteare, poi messo controluce, poi a lungo annusato, poi deposto, poi guardato e per ultimo, passati dieci minuti buoni, ricondotto alla sua funzione primaria di contenitore dal quale, finalmente, berselo, il vino. Assicuravano, al Vinitaly, che anche le menate sui “sentori” - per un rosso potevano elencartene una ventina, dai soliti “frutti rossi” al cuoio, limatura di ferro, polvere da sparo, papaya secca, petali di ciclamino... - avevano stufato, così come l’idolatria per la bottiglia da 100 e più euri e per il vino “di nicchia”. Quando il vino è buono è buono, indipendentemente dal prezzo (purché non si scenda sotto il limite di guardia) e dalle più o meno stravaganti e sedicenti aulenze. Tutte cose che noi del Tavernello denunciamo da quel dì e fa piacere veder riconosciute le nostre ragioni.

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