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Il Giornale

Il made in Italy di ritorno. A tavola ... Il caso Parmalat ha riproposto il tema dell’italianità. Nel settore alimentare, molti pezzi del made in Italy negli anni se ne sono andati: i formaggi Galbani e Locatelli ai francesi di Lactalis, i salumi Rigamonti ai brasiliani di Jbs, il tonno Palmera (Rio Mare e Manzotin) al gruppo olandese Bolton, il doppio brodo” Star agli spagnoli di Gallina Bianca, la birra Peroni agli anglo-sudafricani di SabMiller, quella Moretti all’olandese Heineken, Buitoni e Perugina alla svizzera Nestlè, che possiede anche l’acqua San Pellegrino; la Martini e Rossi alla multinazionale statunitense Bacardi, i gelati Algida all’anglo-olandese Unilever. L’elenco potrebbe continuare, nel comparto alimentare difficilmente gli stabilimenti possono essere esportati e le aziende continuano a sfornare “made in Italy” anche quando i proprietari risiedono altrove. Ma c’è anche una storia parallela di marchi tornati in Italia. Il caso più recente è quello del gruppo Cremonini che ha ricomprato la quota del socio brasiliano Jbs per riappropriarsi interamente della controllata Inalca. Nel passato fece scalpore Barilla, ceduta nel 1970 dai fratelli Pietro e Gianni Barilla alla statunitense WR. Grace, che acquisì poi pasta Voiello e creò il marchio Mulino Bianco. Fino a quando, neI 1979, Pietro riacquistò il pacchetto di maggioranza dell’azienda, facendola tornare italiana. In tempi ancora più lontani, negli anni ‘60 Barone Ricasoli, la più antica casa vinicola italiana, fondata nel 1141, passò prima alla multinazionale americana Seagram e poi al maggior produttore di vini d’Australia, Hardy, che la portò a un passo dal fallimento. Nel 1995 l’ultimo discendente dei Ricasoli se la ricomprò...

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