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Il / Il Sole 24 Ore

Cronache dal fronte del Porto ... Nella culla del celebre vino portoghese, qualcuno tradisce e punta ormai su Sauvignon e Gewurztraminer. Altri viticoltori sono invece affezionati al nettare liquoroso da meditazione ancora prodotto con metodi artigianali. Qui ogni centimetro dei pendii è coltivato. E soprattutto “brandizzato” con le pubblicità dell’investitore straniero ... L’ente portoghese del turismo si raccomanda di citare tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questo servizio: Taylor’s, Ferreira, Sandeman, Calèm, la Casa Da Musica, Castas e Pratos, D.Tonho, Quarentae4, Vintage House e Hotel Infante Sagres (d’ora in poi Gli Sponsor). Ci togliamo subito il pensiero, ma non il dubbio che la crisi abbia indurito ancora di più l’anima di un Paese notoriamente difficile. Al nostro arrivo a Oporto veniamo accolti da Paulo, un sosia di Roman Polanski che a bordo della sua Mercedes extralusso (cm realtà è ancora della banca”, sottolinea) ci farà da guida 24/24 nel nostro viaggio lungo il fiume Douro fin nel cuore delle quintas, le tenute a gestione familiare in cui nasce il vino porto. La città è una collezione di appartamenti en aiquiler e lo stupore panoramico previsto da un barocco endemico è compromesso dai numerosi palazzi vuoti e cadenti. Le zone storicamente più abbienti fanno ormai a gara per decadenza con la Ribeira, un quartiere che al suo aspetto malandato ma pittoresco deve il riconoscimento di patrimonio dell’umanità Unesco, ma in cui ci sconsigliano di avventurarci dopo il tramonto. Con un Pil costantemente in calo e il 15 per cento di disoccupati, quel che ci chiediamo è se l’oro rosso portoghese sia ancora in grado di risollevare le sorti dell’economia nazionale. Attraversando la vasta regione del Vinho Verde apprendiamo che in realtà i maggiori introiti vengono dal consumo interno dell’omonimo vino da tavola, mentre produzione e distribuzione del suo più celebre parente da meditazione sono in larga parte nelle mani di proprietari stranieri, per lo più inglesi. La Grande Occasione Perduta risale al 1865, quando la fillossera della vite (Daktulosphaira vitifoliae) rase al suolo praticamente tutti i ceppi autoctoni europei. Con spietata lungimiranza gli investitori d’Oltremanica, che apprezzavano la dolcezza del porto fin dal 1670 - quando il brandy fu aggiunto per la prima volta al vino portoghese per prolungarne la conservazione durante i lunghi trasferimenti in nave - ne approfittarono per comprare a prezzi bassissimi tutto il terreno possibile. Oggi le vigne che tappezzano le coste di tutto il Douro portoghese sono distinte in sette livelli di qualità (da A a F) in base a una serie di complicatissimi parametri, e per la maggior parte delle piccole aziende autoctone quelle più pregiate sono fuori portata. Dopo una rapida sosta a Sabrosa in visita alla casa natale di quello che qui chiamano Fernào de Magalhàes, arriviamo al brutto ma strategico approdo di Pinhào, dove l’omonimo affluente si getta nel Douro, e veniamo imbarcati su un traghetto che tre ponti e una diga più tardi ci scarica a Peso da Régua. La geografia insegna che tutta questa valle gode dì un microclima perfetto per la coltivazione della vite, con estati afose e inverni miti. Ma il vero segreto è nel terreno, dove lo scisto accumula calore durante il giorno e lo restituisce di notte, tenendo le radici sostanzialmente a temperatura costante. Così ogni centimetro dei pendii è coltivato. E soprattutto “brandizzato”: dalle grandi pubblicità che campeggiano tra i vigneti risuona inesorabile l’ingerenza dell’investitore forestiero. Ma per un’azienda portoghese non produrre porto sarebbe un suicidio commerciale, e accanto alle etichette dei vari bianchi e rossi tutti ne hanno almeno una di vino liquoroso, per il buon nome della famiglia. E quello che ci rivela Catarina, erede della Quinta da Pacheca. Modi schietti, vestiti comodi e una vaga somiglianza con Kathy Bates, ci aspetta nel raffinato bed & breakfast ricavato da un’ala dismessa della quinta. “Il problema è politico - incalza -. Per quelli al potere il Portogallo è solo Lisbona, Algarve e Madeira. Nessuno conosce il Douro, Non esiste nemmeno una vera e propria “strada del porto”. E così ognuno si arrangia come può. lo ho dovuto spostare il cartello delle indicazioni turistiche con le mie mani, perché fosse visibile dalla strada”. Ci lasciamo accompagnare in un giro tra le vigne, ma al momento non ci lavora nessuno. Un tempo era fatto tutto con le mani e con i piedi, e pare che mentre pestavano l’uva nei lagares durante la cosiddetta “corte”, i lavoratori cantassero al ritmo di una banda musicale. “È difficile vendere qualcosa che non esiste. Oggi è tutto affidato agli stagionali, soprattutto rumeni che non parlano nemmeno una parola dì portoghese. Figuriamoci cantare canzoni”. Così la pragmatica Catarina ha deciso di puntare su Sauvignon e Gewùrztrarniner. Di tutt’altro avviso Gil, della Quinta Casa Arnarela, per cui gli anni appena trascorsi sono stati davvero buoni. Gil, che ricorda un po’ Sam Elliott, ha solo tre collaboratori, che durante la vendemmia diventano però anche quaranta. Il lavoro è ancora artigianale e l’unica concessione al progresso sono i camion per il trasporto, che hanno sostituito i treni che a loro volta avevano soppiantato le barche. Pur appartenendo alla Kopke, l’azienda che vanta il brand più antico (1638), la Quinta Sào Luiz è invece all’avanguardia. Qui tutto odora di asettico. La guida, una controfigura di Shelley Duvall, è freddina e sbrigariva, ma in compenso la vista sul Douro è la migliore che abbiamo avuto finora. Molto più interessante la Quinta da Avessada, sull’altopiano di Alto Tràs-os-Montes. A dispetto dello scetticismo dei suoi colleghi, l’allampanato e ciarliero Luis, ritratto sputato di Peter Lorre da giovane, sta organizzando un network indipendente di produttori locali. “L’unica soluzione è spalleggiarsi tra noi”, dice con fervore. “Farci pubblicità a vicenda e costruire una rete di conoscenze in cui “intrappolare” i visitatori e costringerli a restare nella valle più tempo di quel che avevano programmato”. Il suo contributo L alla causa è surreale ma evidentemente appassionato: dopo aver evidenziato i vantaggi dell’altopiano (“L’unico della regione, perfetto per il Moscatel”) ci invita all’interno del museo da lui stesso allestito in un vecchio magazzino inutilizzato. Pochi secondi di perpiessità e a sorpresa comincia la proiezione di un video documentario, in sostanza una successione di foto montate con evidente inesperienza al computer sulla colonna sonora di Bravelzeart. La voce narrante è quella dello stesso Luis che, lo sguardo compiaciuto sinceramente commosso, sussurra in diretta in un microfono a due metri da noi. Un occhio di bue si accende allora sui lagares in pietra, dove tre manichini robot vestiti con cappelli di paglia, camicie a quadri e pantaloni al ginocchio avanzano in linea cantando e ruotando la testa al ritmo di una canzone popolare. Luis è in visibilio. Saranno gli svariati cicchettini di vino accumulati durante il viaggio, ma anche noi tratteniamo a stento le risate. Prima di andar via c’è ancora tempo per un fuori programma. Guidati da Luis alla ricerca di un’inafferrabile in fin dei conti inesistente trattoria “tipica”, facciamo irruzione nel retrobottega della panetteria di Favaios. È qui che conosciamo Rosario, una donna robusta e vivace di età indefinibile che non assomiglia a nessuno e che, dopo aver preparato l’impasto da infornare durante la notte, ci parla di quando negli anni Sessanta lavorava come governante casa di Antònio de Oliveira Salazar, per poi invitarci a mangiare la sua zuppa e a dormire da lei. Rimpiangeremo a lungo di aver resistito alla tentazione di essere serviti come dittatori: è lunedì e in paese è tutto chiuso. Finiamo all’ostello della gioventù a mangiare fave fresche, fichi con formaggio e il caratteristico e acquoso arroz depeixe. Ai dipendenti è però riservato il tradizionale piatto della sera: carne in padella coperta con prosciutto, uova e funghi, “Perché prima di andare a letto - spiega la cuoca - il buon portoghese deve avere la pancia piena”. Per essere un Paese sull’orlo della bancarotta il Portogallo ci sembra fin troppo rilassato, complice sicuramente la bellezza del paesaggio e la dolcezza dei suoi frutti. “Ma tutto si sta modernizzando - assicura Paulo -. Ora a Oporto abbiamo anche l’aperitivo. Non saremo disinibiti come gli spagnoli, ma ci stiamo lavorando”. C’è da chiedersi se davvero basterà qualche bicchierino in più a superare la storica inibizione commerciale dei portoghesi e ad affrontare il duro esame della crisi. Per ora non c’è che da brindare à sua saude.

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