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Il Messaggero

Vino e cibi di qualità appartengono al patrimonio artistico ... Cucina e dintorni: davvero ormai siamo arrivati a parlarne più che della Finanziaria. Alla riflessione - e, talvolta, anche allo sproloquio sul tema - non mancano contributi a 360 gradi. Rotti gli argini, il tortellino è sviscerato fino alla sua brodosa trascendenza, e già ci si prepara ad affrontare l'inconscio collettivo che ribolle sotto il lardo di Colonnata. Oggi più che mai appare quindi comprensibile come, nell'assordante rumore di fondo che avvolge come una glassa il "made in Italy goloso", si avverta l'esigenza di individuare dei punti fermi. La sintesi del discorso si potrebbe riassumere con le parole del ministro delle Politiche agricole e forestali Giovanni Alemanno, in un suo intervento a Culinaria - Viaggio culturale nella cucina, organizzato sabato scorso all'Hilton di Roma, con fitta presenza di critici enogastronomici, operatori del settore e chef: «L'Italia deve riuscire a riconoscere l'enogastronomia e la produzione agricola di qualità come uno degli aspetti legittimi del proprio grande patrimonio culturale e artistico».

Inutile dire che questa identità di paese della buona cucina e dei prodotti di élite ha assunto una grandissima importanza come volano di promozione dell'Italia nel mondo, come asset economico di rilevante valore, oltre che come straordinario ed immediato strumento di comunicazione di un'identità. Nasce all'ombra di questo tema anche un altro convegno — La cucina parla sempre più italiano — che si terrà da domani a mercoledì a Roma tra l'Hotel Cicerone e Palazzo Doria Pamphili. E nutrito sarà il parterre degli interventi, da Fabrizio Del Noce, direttore di Rai 1, al presidente della Confcommercio Sergio Billè, dal viceministro al Commercio estero Adolfo Urso, a chef come Gualtiero Marchesi, Alfonso Iaccarino, Mimma Bastianelli, Alberto Ciarla. Tra l'altro, ci si interrogherà sul futuro dietro l'angolo della nostra cucina e prodotti nel mondo della globalizzazione. In più, sarà presentato il progetto per la creazione del "marchio di autenticità della Ristorazione italiana nel mondo". Al pari dell'angelo biblico che segnava la porta dei giusti avremo allora, da Francoforte a Sydney, qualcuno che selezionerà gli indirizzi del buon mangiare italiano. Meritevole l'idea, anche se i dubbi che i vari burocrati locali (impensabile che si possano sostenere i costi di una commissione itinerante di super-esperti) non abbiano la stessa infallibilità degli angeli sono, a dir poco, elevati. Oggi, proprio perché il "made in Italy" tira, di indirizzi dove il patron cinguetta "mamma mia", oppure si stropiccia le mani mentre prepara gli spaghetti con sottofondo di mandolini come il baffuto cuoco di Lilli e il Vagabondo, si sprecano. Ma dell'Italia qui c'è solo il folklore, una memoria sbiadita e ampiamente meticciata coi tic, le mode, le manie del paese ospite. E ancora, facendo finta che dalla cruna dell'ago non passino i famigerati maccheroni al sugo con le polpette a fianco, come ci si dovrà regolare con quelle ricette italiane nel nome, eppure proposte con ingredienti improbabili (a partire da pasta, parmigiano, pomodori), clonati dal mercato internazionale? Vale anche in cucina il problema dell'estetica in arte: riprodurre in maniera accattivante il bello senza averne colto l'anima equivale a produrre del kitsch. Per evitare boomerang, sarà importante avere bussole chiare. Attenzione a distribuire facili patenti. Meglio stare al vecchio concetto del "meglio pochi, ma buoni".

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