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Il Messaggero

Il vino italiano ora punta alla conquista dell’India ... «India, India: per troppo tempo t'ho sottovalutata». Chi avesse detto a Elio, mitico cantante delle Storie Tese, che un verso d'un suo hit sarebbe divenuto slogan per i produttori di vino italiani, avrebbe certo ricevuto uno sberleffo. Eppure, l'India ha le carte in regola per essere la prossima "terra promessa", o almeno una di esse, per l'eno-business nazionale. Che tira fuori il capo, intanto, dalla crisi con un salto dell'11% nell'export, e il contro-sorpasso agli australiani in Usa, tornando primo Paese importatore (32,7% del totale, oltre il miliardo di dollari). Ma non può certo adagiarsi sugli allori. Lo ha ricordato, inaugurando a Verona il mega-salone del Vinitaly, anche il ministro alle Politiche agricole Gianni Alemanno, segnalando, accanto a quelle sull'export, cifre non proprio brillanti sul valore all'origine del vino sfuso (-21,2%) e di quello di qualità (-15%), e il continuo ristagno dei consumi nazionali, -2% nel 2005. Una situazione che enfatizza il bisogno di difesa forte sui maggiori mercati esteri tradizionali (Germania in primis, dove la "ripresina" è esile) e di un attacco deciso ai nuovi. Ecco allora l'India. Dove, caduto il freno all'import, i volumi sul vino - l'analisi è di Confagricoltura, che l'ha presentata a Verona con otto primari "buyer" indiani - sono ancora una frazione dei 3,5 miliardi spesi per import alcolico, ma dove si prevede un balzo del 1.000% (più del 30% annuo) in meno di dieci anni. E dove circa 300 milioni di consumatori evoluti s'affacciano su un mercato del vino centrato oggi attorno a Mumbay. In India vendono già bei produttori italiani (Ruffino, Marchesi di Barolo, Gaja, Frescobaldi, Zonin). Ma c'è spazio - come indicano le joint venture francesi e californiane - anche per un bel mercato dello sfuso, poi imbottigliato in loco.Chance per varie aree, specie al Sud, di collocare il prodotto di minor prezzo lontano da confronti ravvicinati (problematici per il marketing) con le bottiglie di alto pregio. Concorda Emilio Pedron, top manager del gigante Giv (1.100 ettari vitati, 78% dei ricavi dall'export a 120 milioni, primo gruppo italiano ad aver prefigurato, pur rinviando a data più consona, lo sbarco in Borsa): «Meglio l'India della Cina, certo. Con lucidità però. Sapendo che si tratta d'un mercato di investimento, non di resa immediata. E badando a non perdere spazi su quelli "vicini", dove subiamo la maggior preparazione commerciale dei mega gruppi australiani».

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