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Il Messaggero

Il made in Italy da difendere ... Non c’è niente da fare, siamo e rimaniamo un popolo di Tafazzi. Dopo i “cahiers de doléance” preventivi sull Expo di Milano, che secondo i soliti giustizialisti - questa volta in versione ex ante - porterà scempi e tangenti, e non invece risorse e infrastrutture, ecco che all apertura del Vinitaly, il più importante appuntamento nazionale di un settore, quello vitivinicolo, che da solo rappresenta un quinto del nostro export agroalimentare, arriva puntuale un’inchiesta giornalistica sui vini adulterati e sui raggiri alle regole del marchio Doc. Accuse pesantissime nel primo caso, veniali ma ugualmente montate nel secondo, che dopo la “mozzarella alla diossina” assestano un colpo mortale al made in Italy e dunque alla credibilità del Paese. Sia chiaro: se adulterazioni e truffe ci sono state, vanno punite col massimo rigore. Ma con un doppio distinguo. Uno: prima l’accertamento e la condanna, poi la pubblica esecrazione, non viceversa. Due: un conto sono le fattispecie più pesanti - come l’uso di sostanze velenose - per le quali i responsabili dovranno pagare duramente, e sparire per sempre dal mercato, un altro è l’eventuale mancato rispetto dei disciplinari Doc, che merita una valutazione diversa e più articolata. Si parla, infatti, di “Brunello taroccato” - come a suo tempo di è detto per il Barolo o il Soave - ma in realtà saremmo di fronte ad un vino fatto non con Sangiovese in purezza, come impongono i ferrei disciplinari, bensì arricchito di una percentuale minima di altri vitigni. Sicuran-iente un atto di lesa maestà per i puri sti, ma che non rappresenta né un problema per la salute né un’alterazione della qualità del prodotto, e che dipende dall’esplosione della domanda - per i “supertuscans” non riusciamo a stare dietro alle richieste - e dalla modificazione del gusto dei consumatori (nel caso specifico, di quelli americani).
Dunque, pensiamoci prima di sputtanare aziende di grande prestigio, e rischiare così di mettere in crisi un settore decisivo per la nostra economia. Anzi, per essere seri e costruttivi, cogliamo l’occasione per mettere mano a una riforma della normativa sulla denominazione protetta. Che senso ha, infatti, mantenere disciplinari Così rigidi se poi proprio le aziende più significative devono rinunciare a fregiarsi del marchio? Basta citare Angelo Gaja, “The King of Barolo” come lo ha soprannominato Wine Spectator, che ha rinunciato alla denominazione di origine controllata per il suo vino, perché le regole sono troppo strette. Col risultato che ora il miglior barolo in circolazione si chiama Langhe. Un caso paradossale, possibile solo in un paese autolesionista come l’Italia. Riusciamo ad immaginarci una cosa del genere in Francia, dove invece - miracolosamente - i “cru” di Champagne continuano ad aumentare, sulla scia della crescente domanda internazionale? No di certo. Cerchiamo di essere pragmatici, allora, e prendiamo esempio proprio dai cugini francesi: puntiamo sulla trasparenza, fissando per le denominazioni di origine una quantità minima del vitigno-base, e indicando poi chiaramente in etichetta gli ulteriorì componenti. Così si faranno contenti tutti: il purista che pretende il brunello filologico, così come chi ha il palato meno raffinato. Ma soprattutto si tuteleranno davvero i produttori italiani, che combattono con il super-euro in un mercato globale in cui la concorrenza è sempre più spietata.

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