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Il Mondo

Storie da assaporare pagina dopo pagina. in compagnia di un calice ... In vino (e in cibo) veritas...
“Il cibo è nomenclatura, varianti, ricchezze verbali. È una ghiottoneria mentale, estetica, simbolica, come sottolineava Calvino in Palomar. Un lusso di parola. E anche di colore, come lo è stato per i pittori, dalla Canestra di frutta di Caravaggio, le mele o le pere di Cézanne, alla Vucciria di Guttuso, con nella memoria il bue squartato di Rembrandt”, scrive Gian Luigi Beccaria in Misticanze-Parole del gusto, linguaggi del cibo. Alberto Sordi parla con il suo piatto di spaghetti, prima di avventarvisi sopra. Babette racconta i dettagli del suo pranzo, prima che i commensali si diano da fare con le posate. Ed è frequente, nell’Odissea, intrecciare racconti, davanti alla tavola imbandita e ai calici di vino. Ne ha, appunto, di materia, un grande linguista come Beccaria, per giocare con letteratura e alimenti, in un intreccio festoso di frasi, odori, sapori, ricordi e desideri. D’altronde, non associamo subito tutti certi dolcetti, le madeleines, alle memorie di Proust nella sua Ricerca del tempo perduto. E il grecista Rosario La Giura, protagonista del
bellissimo racconto Lighea di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, non affida a un sapore, quello dei ricci di mare, il compito di evocare il suo amore perfetto per una sirena? Cibi. E idee. Da lasciare entrambi maturare nel tempo, per disvelare i loro aspetti migliori, come suggerisce Massimo Montanari, professore di Storia dell’alimentazione, in Il riposo della polpetta e altre storie intorno al cibo, ragionando con sapiente buon umore (memore certamente della lezione di un grande musicista e cuoco come
Gioacchino Rossini) di riti conviviali, ricette, sapienza fiolosofica, culture che si ibridano nel piacere dell’esperimento e della scoperta, esperienza comunitaria ed etica della condivisione: “La cucina può essere assunta come metafora della vita, a meno che non ammettiamo che la vita stessa sia metafora della cucina”. Mangiare bene. E naturalmente bere di conseguenza. Come racconta Paolo Massobrio ne I giorni del vino - 365 assaggi meditati e raccontati, un Vino Nobile di Montepulciano il 10 di gennaio, un Sangiovese di Romagna nel 25 marzo che s’è aperto alla primavera, un Amarone per i giorni di Pasqua ad aprile, un Ravello bianco di uve falanghina e biancolella per il caldo del 14 luglio, un Guardiavigna per la tartare di lepre di quei grandi cuochi Aimo e Nadia per i giorni che precedono il Natale. Segni di civiltà. Giovanni Negri e Roberto Cipresso, dopo aver vagato tra Ulisse, Saffo, Erasmo da Rotterdam, il cardinale Richelieu e Marilyn Monroe, si affidano dunque a una intervista immaginaria al grande storico Fernand Braudel per concludere il loro Vineide, viaggio attraverso ventisei misteri del vino (“Non c’è mistero che un bicchiere di vino non possa colmare”): la vite, l’ulivo e il grano hanno segnato nei millenni la civiltà del Mediterraneo e fatto da fondamento a una cultura che ha accolto altri elementi, altri sapori per produrre una cultura di sintesi che oggi chiamiamo dieta mediterranea e che ha come simbolo gli spaghetti al pomodoro o la pizza, diffusi in tutto il mondo. Da accompagnare, naturalmente, con un buon bicchiere di vino, scelto con la competenza che ognuno di noi può farsi con l’esperienza diretta o magari sfogliando le pagine sapienti di Vino, l’enciplopedia delle Garzantine, tutto (o quasi tutto) quel che bisogna sapere per capire che cosa beviamo, con che cosa accompagniamo il nostro cibo e, perché no?, chi siamo.

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