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Il Mondo

Diego Schelfi: Il nostro è un modello per 270 mila soci ... Un unicum che non ha omologhi in nessun’altra parte del mondo, tanto che l’Ocse ha aperto un ufficio a Trento per studiare il fenomeno: “Il modello cooperativo trentino è una sintesi tra quello tedesco, molto focalizzato nel settore del credito e dell’agricoltura, e quello italiano che, invece, si è sviluppato di più nel settore della distribuzione e del consumo”, spiega Diego Schelfi, presidente della Cooperazione
trentina, la federazione di rappresentanza, assistenza, tutela e revisione del movimento cooperativo che opera sul territorio della provincia autonoma di Trento.
Il fondatore, don Lorenzo Guetti, un sacerdote con incarichi parlamentari a Vienna quando la regione faceva parte dell’impero austroungarico, diede origine a un’organizzazione unitaria con un solo riferimento associativo. “Lo spirito ancora oggi è lo stesso, a differenza di altre parti di Italia dove operano molteplici realtà: accogliamo tutti i settori, ma puntiamo sugli elementi comuni per creare sinergie e richiamare a un senso di responsabilità. Un approccio che è anche alla base dell’autonomia del Trentino, dove essere terra di confine non significa barriera, ma contaminazione, dialettica, confronto. E un esempio viene dalle casse rurali, che detengono più del 60% del mercato nonostante la competizione con le banche nazionali ed estere sia fortissima perché il numero di sportelli è doppio rispetto al resto del Paese”, sottolinea Schelfi.

Domanda. Qual è l’incidenza nel tessuto produttivo?

Risposta. Abbiamo 270 mila soci, su 500 mila abitanti, ma dato che si
aderisce a più cooperative, si tratta in definitiva di 170 mila persone che fanno parte
della cooperazione nelle varie forme sociali dal lavoro al credito al consumo. Nel mondo agricolo la cooperazione rappresenta il 90% in tre settori: quello lattiero caseario con il brand Trentingrana, quello frutticolo con Melinda e quello vitivinicolo con Cavit, Mezzacorona, La-Vis. Tanto per citare i marchi più noti.

D. Ci sono differenze?

R. La differenza tra modelli di cooperazione è sostanzialmente giuridica. Per esempio, parte degli 8 mila conferitoti d’uva sono riuniti in cantine che a loro volta partecipano a una cantina consortile di secondo livello come nel caso di Cavit, oppure i produttori trattano direttamente con aziende di grandi dimensioni come accade con Mezzacorona e La-Vis. Entrambi hanno circa tra i 1.300, 1.500 soci ciascuna. Non solo, Mezzacorona attraverso la controllata Nosio è presente anche in Sicilia. Il modello trentino è stato pensato fin da subito, date le dimensioni, su tre livelli, il socio, la cooperativa, il consorzio di secondo grado. Attenzione, non è che uno sia meglio di un altro:
il conferitore si adatta alla realtà del territorio, perché lo spirito è essere soci dell’impresa della propria comunità di riferimento. La capacità di scommettere sulla propria realtà è un punto di forza.

D. Quanto influisce la dimensione sull’efficienza?

R. È la domanda che si fanno tutti e ancora non c’è risposta, è naturale che esistano grandi realtà che lavorano molto bene e invece piccole meno capaci e viceversa. Dipende da tanti fattori ma il punto di forza sta nella relazione, perché se non ci si conosce come si fa a sentire la responsabilità reciproca che intercorre tra il conferitore e il direttore di banca o la cantina o l’enologo o con la struttura commerciale? Questo modello ha permesso al settore vitivinicolo di resistere meglio alla crisi: siamo riusciti a mantenere un vantaggio competitivo e nello stesso tempo anche i compensi dei contadini hanno tenuto. Con un’estensione così limitata, il Trentino deve procedere verso una sola direzione, quella della qualità. Dell’ambiente, delle persone e dei prodotti. Miracoli non se ne fanno, ma i giovani in questo modo ereditano oltre all’attività, una struttura di relazione che porta all’innovazione.

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