Anche il vino è destinato a soffrire della “sindrome cinese”? Probabilmente sì, solo che l’offensiva non arriva per ora da Pechino bensì da Auckland e Sidney. A “copiarci” sono infatti australiani e neozelandesi. E questo proprio mentre Giappone, Thailandia, la stessa Cina e la Corea sembrano affezionarsi di più allo stile italiano del vino. Lo dimostra ad esempio un recentissimo studio dell’Ismea che, a proposito delle bollicine italiane (consumi in contrazione sul mercato nazionale, riduzione di export in Usa, Germania e Gran Bretagna, ma incremento di quote in estremo oriente e fatturato complessivo del segmento in crescita del 6%), ha sancito come lo spumante italiano vada molto d’accordo con l’area del Pacifico e dintorni.
L’analisi dell’Osservatorio del Salone del Vino - la rassegna si terrà al Lingotto dal 27 al 30 ottobre prossimi - ha messo sotto osservazione proprio Australia e Nuova Zelanda per capire come questi due paesi, indicati da tutti come i più temibili concorrenti per il vecchio mondo del vino, si stiano muovendo.
Ebbene tre sono le novità che emergono: la prima è che Australia e Nuova Zelenda hanno scoperto i vitigni autoctoni italiani e ne vanno facendo produzioni di nicchia per aggredire la fasce alte di mercato, la seconda è che hanno abbandonato la barrique ad ogni costo, la terza è che stanno rivoluzionando il packaging del vino per renderlo più fruibile e a costi più competitivi.
Il “nuovo stile” del vino del nuovo mondo ha consentito sui mercati interni di Australia e Nuova Zelanda di aumentare il consumo, anno su anno, del 24% nel primo paese e del 28% nel secondo, con una contrazione dei consumi di birra di quasi il 30% in entrambe le aree geografiche.
A contribuire a questo aumento di consumi interni sono tre elementi: il tappo a vite che rende il vino più immediato nel consumo e nell’immagine (al di sotto dei 30 dollari in Australia e Nuova Zelanda i vini sono tutti con tappo a vite), la comparsa dei vini “senza legno” e soprattutto la differenziazione del gusto attraverso l’introduzione di nuovi-antichi vitigni. In Australia, si trovano dei sangiovese, dei marzemino, dei lambrusco, dei sagrantino prodotti in Barossa e Yarra Walley, mentre la Nuova Zelenda, grande produttrice di pinot nero e di bianchi come chardonnay e sauvignon, sta puntando sul Vermentino soprattutto nella zona di Canterbury. Ed è con questi monovitigni “italian style” che i due Paesi stanno cercando penetrazioni ancora maggiori sui mercati asiatici emergenti.
Per quanto riguarda l’interscambio c’è da sottolineare che in entrambi i paesi si vende meno vino italiano (-2,67% in Australia e -1,11% in Nuova Zelanda), mentre l’Italia sta comprando più vino proveniente da quei paesi (+17,8% dall’Australia, + 2,69% dalla Nuova Zelanda).
L’Australia - leader del gruppo di Cairns che contesta sia la Pac europea sia il sistema delle denominazioni di origine - ha nel Far East il suo principale mercato di esportazione e sta portando in Cina e Giappone vini “italian style” prodotti da monovitigno italiano.
L’analisi dell’Osservatorio del Salone del Vino ha consentito anche di rilevare un radicale mutamento nella distribuzione interna dei due paesi dove quattro catene della Grande Distribuzione Organizzata stanno di fatto soppiantando i negozi tradizionali. La presenza di vino italiano nella rete distributiva organizzata dei due paesi è sporadica.
Dall’analisi dell’Osservatorio del Salone del Vino emerge, dunque, con chiarezza che esistono spazi per incrementare le esportazioni verso Australia e Nuova Zelanda, puntando proprio sui vitigni autoctoni italiani. L’incremento di presenza dei vini italiani in quell’area è, infatti, condizione indispensabile per aggredire anche i mercati dell’Oceania e in parte del Far East. Ma è indispensabile una difesa più incisiva delle denominazioni e dei vini italiani prodotti da vitigni autoctoni. Esattamente uno dei temi centrali del Salone del Vino, che si terrà a Torino dal 27 al 30 ottobre.
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