Per apprezzare il Vinsanto in tutta la sua leggiadra magnificenza occorre avere una visione sul mondo del vino che vada oltre il calice e le note degustative ed osservi con sincera curiosità l’insieme di fattori che compongono “l’arte del bere”. E la Toscana, terra vocata alla sua secolare tradizione, è un esempio di come le produzioni vinicole si siano affermate nel mondo per l’indubbia qualità ma anche grazie alla loro solida storia fatta di secoli di vendemmie e sedimentazione nella vita quotidiana degli abitanti e nell’opera agricola-pittorica di modellamento del territorio fatta dai coltivatori nel corso del tempo. Il vino assurge a veicolo immaginifico ed in grado di geolocalizzare la mente in un determinato posto e storia. I dolci paesaggi collinari, i merletti dei castelli, gli attrezzi agricoli manuali in ferro, le pievi, i cipressi e la loro resina, i papaveri di inizio estate, le balle di fieno e poi colline ed ancora colline, pietra grezza, antiche storie, miti e leggende, quando si beve un calice di vino toscano, a qualsiasi denominazione o brand esso appartenga, si mette in moto la fantasia del consumatore. Summa massima di questa espressione rituale del bere è il Vinsanto. Che sia in un contesto civile o che sia in quello religioso, il calice dal tipico colore oro-aranciato assurge esso stesso a rito, grazie alla sua unicità, alla schietta tradizione che tramanda e al concetto di attesa nel tempo che lo contraddistingue.
La vinsantaia è un locale di un’azienda agricola che porta tutta una sua spiritualità e sacralità come luogo in cui il tempo scorre naturalmente senza l’alterazione umana, solo uva che appassisce sui graticci e poi mosto che invecchia nei caratelli. Anni che passano, stagioni, mode, guerre e conflitti che esistono in seno alla società non sono niente davanti all’incedere dei processi naturali di fermentazione ed affinamento del dolce nettare delle uve che nel silenzio e nella tranquillità sviluppano il loro grado zuccherino e la viscosità così piacevole in bocca e una leggera, quasi impercettibile, volatile che disseta con la delicata punta di acidità. Di nonno in nipote, di padre in figlio, il segreto di un buon vinsanto è tramandato nelle famiglie dei produttori e dei contadini toscani dalla notte dei tempi. Dunque in un rituale che si è tramandato così, sulle tavole nelle campagne dal Chianti Rufina alla selva montana del Monte Amiata, e in parallelo nelle funzioni religiose, di pieve in pieve, il Vinsanto è, per eccellenza, gusto della tradizione.
Nell’espansione “pop” del vino dagli anni Sessanta ad oggi, una gemma enologica del calibro del Vinsanto è stata relegata al ruolo di vino da dessert. Spesso, purtroppo, come bevanda per accompagnate i cantuccini toscani, rovinando così lo sforzo tecnico del produttore. Oggi che la Toscana è sul tetto del mondo con riconoscimenti della critica internazionale che piovono per i rossi, anche il Vinsanto chiede un riscatto. Anzi una rinascita. Un tema che in Toscana, terra dove è nato il Rinascimento, è centrale.
Per alcune famiglie storicamente produttrici di vino, come nel caso della famiglia Gondi e il Vinsanto è un vero e proprio affetto del cuore. Nella Tenuta Bossi - Marchesi Gondi nel Chianti Rufina tra Pontassieve, Le Sieci, La Rufina, Compiobbi e il Girone, il Vinsanto vuole avere il diritto di essere un vino a tutto pasto, dolce e “stilnovista” come lo definisce il Master of Wine Gabriele Gorelli, chiamato a raccontarlo in questa nuova veste, nei giorni scorsi a Palazzo Gondi a due passi da Piazza della Signoria e dal Duomo di Firenze, con Vito Mollica, chef stellato dell’Atto a Palazzo Portinari e Bernardo, Gerardo e Lapo Gondi alla guida della tenuta di famiglia. E che hanno proposto un menù per dimostrare che si possono abbattere schemi e preconcetti e che la grazia assoluta di questo vino, il Vinsanto, si può portare in tavola senza paura. Appunto uno Stilnovo, stagione felice della letteratura italiana che vide in Dante, Cavalcanti e Guinizzelli inaugurare un vero e proprio linguaggio stilistico e morale nel nome della grazia. E noi ci auguriamo il ritorno, in ottica sempre futura, alla diffusione e al rispetto di consumo del Vinsanto che è più che una commodities ma un segno della grazia del Creato nel calice.
E se il Vinsanto per i Marchesi Gondi è una questione di famiglia, in Toscana c’è una realtà per la quale esso è vera e propria “teologia liquida”, espressione tangibile di una fede incarnata come il Cattolicesimo: la Pieve di Campoli, azienda agricola dell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero - gestita da un team agronomico ed enologico capeggiato da Andrea Paoletti, storico manager ed maestro nella conoscenza della viticoltura e del vino in Toscana che ha avviato la produzione di Ornellaia in quel di Bolgheri e ha lavorato per tanti anni per Marchesi Antinori - che produce il Vinsanto con cui si celebra la Santa Messa all’interno del Duomo di Firenze. La stessa messa, lo stesso altare, dove nel 1478 si verificò la Congiura de’ Pazzi che vide ucciso Giuliano De’ Medici e ferito Lorenzo il Magnifico. Ed anche all’epoca si celebrava la messa col Vinsanto delle terre del Chianti Classico. Dall’areale di Cortine a San Donato in Colle, dirimpettaio della famosa Isole e Olena, fino ai terreni dove è fisicamente ubicata la pieve di Campoli, accanto alle vigne che danno vita al Tignanello, il Vinsanto è al centro della vita dei fedeli nelle funzioni religiose.
Dunque, nelle produzioni dei Marchesi Gondi e in quelli della Pieve di Campoli si osservano due ritualità parallele e diverse, ma unite per il gusto dell’attesa. Dal piacere di realizzare un prodotto specifico e che sopravviva alla prova del tempo. Oggi tra le mode passeggere e gli attacchi frontali dei media al mondo del vino, nella disaffezione delle nuove generazioni verso il nettare di Bacco, e il cambiamento climatico, tocca proprio al Vinsanto mantenere viva la tradizione di una beva corposa e grassa, ricca di sapori. Con produzioni dai numeri da collezionismo di nicchia, questo prodotto enologico è una vera e propria forma di arte, un pezzo unico. E solo grazie alla qualità messa in campo da aziende come quella dei Marchesi Gondi nel Chianti Rufina e dalla Pieve di Campoli nel Chianti Classico e tante altre sparse per tutto il territorio toscano si riuscirà a scardinare quegli archetipi mentali, limitanti e sedimentati che vedono ridurre una delle bevande più sacre del mondo a semplice accompagnamento per il dessert.
Il messaggio lanciato dalla famiglia Gondi e dalla Pieve di Campoli, che ha aperto in Piazza Duomo a Firenze un negozio proprio per permettere ai turisti di tutto il mondo di portarsi a casa una bottiglia di “arte enologica sacra”, è quello che il Vinsanto sia un vino che può essere da tutto pasto che supporta gli abbinamenti più spinti in cucina, come ha dimostrato lo chef Mollica presentando alla critica nazionale ed internazionale un menù a supporto delle annate di Vinsanto dal 1988 al 2006 della Tenuta Bossi, estroso e ragionato con crismi e variazioni nel gusto, giocando sul contrasto dei sapori: dal Risotto sul Cibreo alla Quaglia al forno, dal Foie gras ad un trittico di Blue cheese toscani. Oppure che il Vinsanto sia un vino da fine pasto, ma non come accompagnamento. Bensì, esso stesso sia proprio il dolce di fine pranzo da gustare in una doverosa meditazione, con rispetto sorso dopo. Ed ora che il Vinsanto e i Cantucci finiscono su di una moneta speciale nella Collezione Numismatica 2024, dal valore di 5 euro e che sarà in vendita dal 5 marzo per un totale di 7.000 pezzi è importante che accanto alle celebrazioni puramente folcloristiche si affianchi un vero e proprio senso di spiritualità ogni volta che si beve un sorso del vino più storico che attualmente troviamo nel mondo, oltre le note e le degustazioni, quando è fatto a regola d’arte, un Vinsanto che celebra il rito della vita.
Copyright © 2000/2024
Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit
Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024