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NON SOLO “AUTOCTONI”

Il ruolo dei vitigni internazionali in Italia, le Igt come strumenti sperimentali nei territori

La riflessione del professor Attilio Scienza e del produttore Alessio Planeta, su varietà che hanno aiutato (e aiuteranno) il vino italiano a crescere
ALESSIO PLANETA, ATTILIO SCIENZA, VINO ITALIANO, VITIGNI INTERNAZIONALI, WINE2WINE, Italia
Il professor Attilio Scienza, luminare del vino a livello mondiale

“Oggi parlare di varietà internazionali in Italia (con qualche piccola eccezione come Bolgheri, Franciacorta, Alto Adige e spero anche Menfi) è quasi un sacrilegio”: sono le parole, provocatorie, con cui Alessio Planeta, alla guida della cantina siciliana, che proprio del binomio tra l’espressione di grandi vitigni internazionali capaci di esprimere a loro modo i territori di Sicilia, insieme alla grande ricerca e valorizzazione delle varietà autoctone ha fatto uno dei suoi punti di forza, ha fotografato il sentiment del momento nel seminario della Vinitaly International Academy a Wine2Wine by Veronafiere, in cui a fare l’analisi della presenza e del significato dei vitigni internazionali in Italia è stato Attilio Scienza che definire “solo” professore dell’Università di Milano è riduttivo.
Il nostro sistema vitivinicolo ha puntato da tempo sulla valorizzazione delle varietà autoctone, dopo essere passato attraverso l’introduzione di vitigni internazionali prima come miglioratori e poi come cavalli di Troia per entrare sui mercati del mondo per poter competere “ad armi pari” con vini che con quelle varietà sono prodotti. Ora è tempo di riflettere sul percorso fatto fin qui. “Spero che dopo questa fase in cui la viticoltura italiana si è sviluppata essenzialmente sugli autoctoni, si possa riparlare con una maggiore serenità anche degli internazionali - ha esordito Attilio Scienza - il ruolo più importante di questi ultimi è stato quello di fare uscire l’Italia dell’Ottocento dal provincialismo, dalla celebrazione della viticoltura radicata nel mondo greco e latino che non era riuscita ad uscire dalla sua connotazione geografica. Al contrario la Francia aveva esportato, grazie alla potenza militare ed economica, la sua viticoltura e anche la sua gastronomia. Allora, come testimonia la bibliografia, i vitigni francesi arrivarono in Italia, in Toscana, in Friuli, e così via. E nel 1868, l’affermazione di Guyot “il genio del vino è nel vitigno”, e quindi non nel terroir, segna una rivoluzione e capovolge l’impostazione culturale e produttiva della viticoltura europea centrandola sulla varietà. Ecco il grande ruolo delle collezioni dei vitigni francesi in molte regioni in Italia, laboratori sotto il cielo per acquisire informazioni, che si sarebbero diffuse a grande velocità, e luogo di scambio di materiale vegetale. Lo studio dell’ampelografia nel 1800 fu fondamentale per ricostruire la viticoltura dopo la fillossera. I grandi cambiamenti nelle piattaforme ampelografiche e il desiderio di emulare i più famosi vini della Francia favorirono la coltivazioni delle varietà migliori e l’introduzione di vitigni da altre zone d’Europa. I vini fecero un salto di qualità anche grazie all’avvento dell’enologia moderna e alla separazione tra produzione di uva e vinificazione, con i vinificatori che chiedevano uve diverse e specifiche per confrontarsi con un mercato internazionale. La nascente borghesia creò una gerarchia qualitativa dei vini che determinò le prime delimitazioni territoriali: i premier cru bordolesi datano 1855. Il consumo del vino si svincolò dal cibo e si legò a occasioni di incontri e diventò testimonianza di status sociale. E poi importante fu il ruolo delle Accademie di Agricoltura e delle scuole di Enologia. E in tempi recenti la coltivazione di vitigni internazionali in Italia ha ripreso vigore per misurarci sui mercati internazionali con francesi, californiani e australiani, perché era difficile entrare sui mercati esteri con i nostri vini da autoctoni, tranne che per alcuni come il Nebbiolo, con il Barolo, e il Sangiovese. E abbiamo prodotto grandi vini che hanno vinto la sfida e ciò ha consentito di attrarre l’interesse del mondo sul vino italiano e sugli autoctoni fino ad allora sconosciuti”. Per inciso, ha spiegato Scienza, molti dei vitigni che noi riteniamo autoctoni - come, per esempio, Moscato, Zibibbo e Greco - sono diventati “italiani” perché alla base di vini prodotti in Italia, ma la loro storia e origine dice che di italiano non hanno niente. Non sono il risultato della nostra storia e cultura, ma sono stati portati dalla grande migrazione dal Caucaso e dalla Turchia, con destinazione nel nostro Paese, che ha attraversato l’Europa da est a ovest. E forieri di sorprese sono anche i vitigni internazionali, perché con l’analisi del Dna si è scoperto che alcuni di essi hanno rapporti strettissimi di parentela con varietà italiane autoctone, come per esempio tra il Syrah e il Teroldego.
“In senso stretto i vitigni autoctoni - ha spiegato Scienza - provengono della domesticazione della vite selvatica italiana, e sono forse 5 o 6. Tutti gli altri sono il risultato dell’introgressione genetica tra queste e il germoplasma arrivato con le migrazioni nell’era del bronzo antico. Questo comporta una serie di paradossi che chiariscono il percorso di queste varietà e il loro ruolo. Non si può definire un vitigno autoctono se non se ne conosce l’origine. Quanto tempo è necessario perché sia così definibile? Il Merlot, per esempio, in Veneto è considerato autoctono. E se un vitigno non è coltivato da molto tempo in un luogo si può ancora definire “tradizionale”, come nel caso di vitigni “scoperti” e recuperati recentemente, o è solo nostalgia del passato? Infine il paradosso della globalizzazione. Abbiamo scoperto i vitigni antichi nel momento in cui la nostra viticoltura stava per essere “conquistata” dalla fama e dall’immagine dei vitigni internazionali che arrivando in Italia hanno cambiato il profilo sensoriale di molti vini e questo ha turbato molti produttori.
Ecco l’avvio dello studio sugli autoctoni per valorizzarli sullo stimolo degli internazionali.
Su questi ultimi si sa tutto, dalla coltivazione alla vinificazione, grazie a grandi banche dati cosa che non esiste per i “nostri” vitigni e questo di traduce in un vantaggio nell’espressione della qualità. E, inoltre, si adattano alle forme di allevamento moderne più facilmente meccanizzabili. Facili da coltivare, da vinificare, con qualche eccezione, come Pinot nero, Syrah, Sauvignon, e facilmente riconoscibili dal consumatore si sono diffusi in tutto il mondo. Ma il successo di questi vini varietali non è scontato: ci sono di mezzo le difficoltà legate al terroir, alle tecniche di vinificazione e al confronto, inevitabile, con i “modelli” di riferimento di solito francesi, per fare un esempio per i Pinot nero con la Borgogna”.
Per quanto riguarda l’interazione con le condizioni pedoclimatiche in alcuni areali italiani le varietà internazionali hanno dimostrato di esprimersi addirittura meglio che nei luoghi di origine. Oltre che per qualità, la loro importanza nella viticoltura italiana è anche nelle quantità. Numeri alla mano, gli internazionali non sono un fenomeno marginale, ma sostanziale (nel 2015 per ettaro il Merlot era al quinto posto, al settimo lo Chardonnay, al nono il Pinot Grigio che con la recente doc Delle Venezie ha fatto un balzo in avanti). “Molto spesso i vini da vitigni autoctoni sono più originali - ha sottolineato Scienza - ma in questi anni per i vini da internazionali si è spinto sull’espressione del luogo di coltivazione producendo etichette protagoniste del rinascimento del vino italiano, come il Sassicaia di Incisa della Rocchetta o il Tignanello di Antinori, preceduti da altri, in particolare nelle Venezie. Alcuni esempi che hanno dato quasi uno stile nazionale a questi vitigni, sintesi tra varietà e terroir: l’antesignano Ferrari spumante nel 1902, il Venegazzù del Conte Loredan Gasparini (1951), il Fojaneghe del Conte Bossi Fedrigotti (1961), il Vintage Tunina di Jermann (1975), il San Leonardo dalla famiglia Guerrieri Gonzaga (1982). I vitigni internazionali e i terroir italiani possono sviluppare una loro immagine originale e assumere dignità particolare solo se oltre che al territorio vengono legati anche a una marca, come testimoniano questi esempi”.
Il peso del terroir e della marca, dunque, è alla base del successo dei vini da internazionali in Italia e quanto al loro futuro in Italia, considerando che “l’impatto delle denominazioni sulla scelta delle varietà è vincolante”, come ha sottolineato in chiusura Alessio Planeta, Attilio Scienza ha indicato le Igt “quali strumenti esplorativi e sperimentali in un territorio, per provare vitigni e miscele varietali diverse che, a fronte di risultati positivi, possono essere premesse per modificare i disciplinari delle denominazioni”. In una sorta di percorso al contrario rispetto a quello fatto finora in molti territori.

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