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Il Secolo Xix

Vinitaly, la sfida degli italiani: uno studio segnala l’affermazione dei vini dell’emisfero australe. Zonin: «Punteremo sui nostri vigneti autoctoni. Rispondiamo così a cileni, sudafricani e australiani» ... Finora sulle tavole dei consumatori
italiani hanno sempre dominato
le etichette dei vini nazionali. Le
pregiate bottiglie francesi, così come
più recentemente i nuovi vini californiani,
cileni o australiani, rappresentano
ancora una nicchia riservata a un
ristretto numero di appassionati. Ma
è uno scenario, questo, destinato a essere
presto rivoluzionato dalla globalizzazione
che nel settore vinicolo
avanza a un ritmo velocissimo.
E’ quanto sostiene Nomisma, uno
dei più qualificati centri di ricerca italiani,
che ieri al Vinitaly, la grande vetrina
internazionale del vino in corso
a Verofiere fino a lunedì, ha presentato
i risultati di uno studio dedicato all’
exploit dei produttori del Nuovo Mondo.
A differenza di gran parte dei prodotti
alimentari - afferma la ricerca -
«quello del vino si propone come un
settore fortemente internazionalizzato
». Entro il 2005 il 28% del vino prodotto
nel mondo (il 39% in termini di
valore) sarà destinato all’esportazione.
E nel giro di pochi anni i paesi dell’emisfero
australe (Cile, Sudafrica, Australia,
Nuova Zelanda) che fino a poco
mondiale, copriranno il 30% dell’interscambio
internazionale di vino, minacciando
i produttori francesi e italiani
perfino sul loro territorio.
Gli economisti di Nomisma puntano
il dito contro la frammentazione del
tessuto produttivo italiano, troppe piccole
aziende, spiegano, mentre nei Paesi
emergenti dominano i grandi gruppi:
le cinque maggiori imprese in Italia
rappresentano appena il 5% del mercato,
contro il 73% degli Usa, il 68% dell’Australia,
l ’80% della Nuova Zelanda.
Ma dai produttori di vino presenti a
Verona viene un’altra risposta. All’arrivo
dei cileni e degli australiani, per
quanto di elevata qualità e a prezzi
competitivi, l’Italia può rispondere attingendo
alla straordinaria varietà dei
suoi vigneti, in particolare agli autoctoni,
tipici e originari di particolari
zone, non ancora studiati e valorizzati.
Ed è significativo che su questa linea
si trovi il maggiore produttore vinicolo
italiano, Gianni Zonin. «Siamo di fronte
a un’offensiva massiccia dei paesi
emergenti e a un mutamento del gusto
- spiega - la risposta che l’Italia può
dare è quella di valorizzare le sue specificità
enologiche». Su 3700 ettari a vigneto
del gruppo Zonin, il 58% è rappresentato
2010 - afferma l’imprenditore - arriveremo
al 68%. In Friuli ad esempio stiamo
già spiantando Cabernet per piantare
Refosco dal peduncolo rosso».
In Piemonte, quindi, non solo più
Barbera, Nebbiolo, Freisa, ma anche
Ruché e Zampa di Pernice. In Oltrepò
non solo Bonarda e e Croatina, ma anche
Uva della Cascina e Uva rara. In
Friuli Tocai e Refosco, ma anche Pignolo
e Tazzelenghe. In Puglia Primitivo
e Negroamaro, ma anche Sussumaniello.
In Sicilia Nero d’Avola, ma anche
Nerello Mascalese e Frappato.Ma
c’è anche chi, come Ezio Rivella o Piero
Antinori o Nicolo Incisa della Rocchetta,
non rinuncia alle grandi possibilità
che anche in Italia hanno i vitigni internazionali.
E a Verona, dove oggi verrà presentato
il progetto di Bini Buoni d’Italia,
la prima guida agli autoctoni italiani,
il grande enologo Giacomo Tachis, a
conclusione di un ristretto summit fra
12 grandi produttori italiani riuniti ieri
a confronto da Civiltà del Bere, ha ricordato
che, autoctoni o internazionali,
«quello che conterà sempre sarà il terroir,
quell’insieme di territorio, di vitigno
e di cultura, che rende unici i vini
delle nostre regioni».

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