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Il Secolo Xix

Neppure il super-euro ferma l’export verso gli Stati Uniti ... Gli Usa si confermano primi importatori con una crescita del 9%. Segnali positivi anche dall’Estremo Oriente... Neppure l’ombra del supereuro, che sul grande mercato americano a gennaio, per la prima volta, ha fermato la crescita delle importazioni italiane (e in misura ancora maggiore di quelle francesi), attenua l’ottimismo che si respira fra i produttori italiani di vino. “Nel 2007 negli Stati Uniti l’Italia si è confermata il primo importatore - ricorda Jacopo Biondi Santi, titolare del Castello di Montepò e presidente dell’Italian Wine & Food Institute - con una crescita che ha sfiorato il 9% sia in quantità che in valore, mentre l’Australia ha accusato un calo
del 3,5% in quantità e un incremento di appena il 3,2% in valore”.

Nell’area del dollaro, al di là della congiuntura valutaria sfavorevole, confermano i dati più recenti, le etichette made in Italy continuano a conquistare spazi nella ristorazione e ad assicurarsi il favore dei vip che fanno tendenza. Anche il prossimo matrimonio da rotocalco, quello della miliardaria Ivana Trump, in programma il 12 aprile a Palm Beach, vedrà scorrere fiumi divino italiano, come ha rivelato al sito Winenews il conte Gelasio Gaetani Lovatelli d’Aragona, che ha suggerito alla futura sposa un bianco siciliano (Chardonnay di Planeta) e un rosso toscano (il Nearco Col d’Orcia).

Gli affari promettono bene anche sui mercati emergenti. “In Estremo Oriente i primi ad arrivare sono inevitabilmente i francesi - osserva Lodovico Antinori (Tenuta di Biserno), ma dopo la prima ondata di frenesia per i loro prodotti arriviamo noi e il nostro modo di porci su quei mercati è più dinamico, più moderno”. In Europa, poi, le prospettive sono decisamente buone, dopo la ripresa dell’importante mercato tedesco, che lo scorso anno ha premiato con un +17% le importazioni italiane assicurando al vino made in Italy la leadership con una quota del 36%.

Ma il fallo nuovo, che emergerà al Vinitaly nei prossimi giorni, è che alf estero non si trovano solo, sempre più spesso, i vini italiani, ma anche i vitigni autoctoni (cioé originari e tipici) delle regioni italiane. Finora per vitigni internazionali si intendevano solo i classici francesi, come Cabernet, Sauvignon, Merlot, Chardonnay, Pinot Noir e, per certi versi, anche il Sirah. La tendenza, rilevano gli esperti, è adesso quella considerare internazionali anche gli italici Sangiovese, Nebbiolo, Barbera, coltivati tranquillamente in California, in Cile, in Australia. In questo Paese, dall’altra parte del globo, sono stati impiantati persino doni di Sagrantino, un vitigno originario di una piccola zona dell’Umbria, praticamente “resuscitato” una ventina d’anni fa. “Unfatto nuovo quello dei vitigni italiani diventati internazionali, che sta a significare che l’Italia, come la Francia, sta diventando sinonimo di grande vino, degna di essere presa ad esempio”, commenta Marco Caprai, che per il 4 aprile ha organizzato a Verona una degustazione comparata di Sagrantini umbri e australiani.

Nel valutare i Nebbioli o le Barbere internazionali, però, avverte Luca Paschina, direttore della tenuta Barboursville vineyards, che il gruppo Zonin possiede negli Usa, in Virginia, “non si possono fare confronti: anche se i vitigni sono gli stessi, infatti, i “terroir”, con le differenze di clima, di terreno, di cultura vitivinicola, danno origine a vini diversi, che sono il prodotto del rispettivo terriorio!. In Virginia Zonin coltiva Barbera dal 1976, Sangiovese e Nebbiolo dal ‘95.
I risultati? “Anche se in America è più facile vendere il Sangiovese - risponde il tecnico - direi che questo vitigno non si è adattato bene. Ben altri risultati abbiamo raggiunto con i due piemontesi, il Nebbiolo, in particolare, che risulta delicato, morbido, capace di evolvere, con l’invecchiamento, in modo entusiasmante. Però non aspettatevi il Barolo, qui non siamo nelle Langhe”.

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