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Il Sole 24 Ore / Ventiquattro

Re di coppe ... Richard Geoffroy è lo chef de cave di Dom Perignon. Suscita timori reverenziali e non teme scelte radicali: se la vendemmia non è all’altezza, la cuveè non verrà prodotta... Nessuno lo immagina in un posto diverso, lontano dal dolce autunno di Epernay, a fare qualcos’altro. E dire che si era laureato in Medicina: sarebbe stato un dottore pignolo, un po’ alla Greg House, geniale, ma non così intrattabile.
Certo può sembrare strano il passaggio da chirurgia a enologia. Strano, se non fosse per quella sua famiglia “consacrata al vino da sei generazioni” e per la seduzione irresistibile di ciò che produce: non la pietra filosofale o l’elisir della giovinezza, ma un attimo liquido di felicità. Una bottiglia di champagne. Richard Geoffroy, 53 anni, chef de cave di Dom Pérignon (l’uomo che, anno per anno, decide se e come si produrrà il millesimato più venduto del mondo), ricorda bene il giorno in cui ha deciso di mettere da parte la medicina per iscriversi all’Ecole nationale d’enologie di Reims e non si chiede più che cosa avrebbe fatto senza quella sterzata così definitiva. Vista dal presente, la medicina era “un ideale adolescenziale, un momento di ribellione, quando i figli vogliono fare qualcosa di diverso dai genitori”.
Ma “l’amore per la natura era più forte. E il vino è una questione d’amore”. Nessuno però può sfuggire alla sua aura, così Geoffroy è preceduto ovunque da un timore reverenziale misto ad ammirazione e a un pizzico di mistero. Molti collaboratori non sanno dove viva, non sanno che è sposato e ha tre figli (“Uno suona la chitarra e forse diventerà un musicista”), ma ne riconoscono l’autorevolezza, come si fa con un primario. Se Geoffroy dice che la vendemmia non è all’altezza, per quell’anno la cuvée non verrà prodotta. Lui lo spiega così: “Ci sono abiti che possono essere confezionati solo con alcune stoffe. Lo stesso vale per Dom Pérignon. Non si tratta di un giudizio di valore, ma di una visione estetica”. Per arrivare a questo punto c’è voluta un’altra svolta importante, la nomina a chef de cave: lo champagne, una passione, diventa una filosofia, un sacerdozio quasi, niente di più lontano dal marketing e dal business, visto che l’obiettivo è la perfezione “alla quale ci avviciniamo qualche volta, sei volte in trentasette anni: nel ‘61, nel ‘73, nell’82, nel ‘90, nel ‘96, nel ‘98” (prendete nota).
E, tanto per capire il senso della sfida, “il 2007 è un caso unico, una stagione complicata. Non è successo niente del genere da tre secoli, un aprile molto caldo, un’estate brutta, piovosa e il bel tempo che è arrivato all’ultimo momento a salvare la vendemmia, è stato un miracolo, ma qui accadono molti miracoli. Alla fine decide la natura”. Guai a pensare che sia semplice, però. Le soavi bollicine tengono occupata “una squadra di sessanta persone, cinque enologi, e tutti devono essere motivati per raggiungere il risultato”. Perciò, dopo essere stato paragonato a un regista, a un alchimista, a un direttore d’orchestra, Geoffroy confessa che associa il Dom Pérignon alla Ferrari.
“Mi piacerebbe... - e sorride guardando i vigneti dell’Abbazia di Hautevillers incorniciati dal vano della finestra - mi piacerebbe incontrare il loro direttore delle risorse umane per capire in che modo si crea un team vincente. La Ferrari è simile allo champagne, al di là del mito c’è il prodotto, il fascino, l’avventura che si rinnova ogni anno. Conta il presente, conta la corsa, la competizione, un ritocco infinitesimale al motore può decidere la gara. Come i meccanici, anche noi lavoriamo su dettagli. Come la Ferrari, Dom Pérignon è l’incontro fra tecnica ed emozione. Certo ci sono quelli che comprano una Ferrari (o uno champagne) senza capirlo, per celebrare l’effimero, ma ogni tanto incontrare chi comprende, fossero anche due persone su mille, è un momento felice”. Si capisce perché gli oggetti non lo interessano (“Colleziono ricordi”).
La religione del vino non gli lascia tempo e il poco che avanza è per gli altri, la famiglia, gli amici, qualche immersione in altre culture: “L’Asia, il Giappone, il Sudest asiatico.
In Cambogia sono andato nel 1991 e ho trovato una calma, una serenità della quale avevo bisogno. Tre anni fa, con la famiglia, sono partito per l’Australia, un posto dove si ha l’impressione di lasciare la terra, due giorni a Sydney e tre settimane nella natura intatta. L’anno scorso sono stato in Messico, una frontiera, un mistero, ma non riesco a viaggiare quanto vorrei”. La colpa è anche di Dom Pérignon enothèque, la memoria storica del vino, “il modo non scritto che ha l’enologo di trasmettere il suo sapere. Biblioteca, ma anche pinacoteca, perché c’è un paragone tra gusto e colore, il tempo cambia lo champagne e cambia gli uomini. Certo, c’è modo e modo di invecchiare...”.
E magari si potesse passare, imitando lo champagne, da una plénitude all’altra: “Sette anni in cantina solo per sviluppare lo stile. Altri sette per la prima plénitude, quindici per la seconda, trenta e più per la terza, l’affermazione del vino in tutta la sua complessità”. E finiamo parlando di filosofia, di yin e yang, di sensualità, di piacere fisico e spirituale. Certo, siamo nel cuore di un lussuoso business, con i russi che comprano le bottiglie più preziose in confezioni da dieci e gli americani che attraversano apposta l’Oceano, ma dietro le campagne di Karl Lagerfeld con le belle modelle (l’ultima, appena uscita, ha come protagonista Claudia Schiffer), dietro tutto questo, c’è un uomo che ha l’ambizione semplice, la missione (impossibile?) di creare “lo champagne migliore del mondo”. Meriterebbe un’etichetta tutta sua, una serie limitata, un Dom Geoffroy (che suona anche bene). Sarebbe una bella svolta.

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