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Il Sole 24 Ore / Ventriquattro

Il broker del Brunello. Ha lasciato la finanza, è andato a Montalcino e ha iniziato una nuova vita. Ha messo in soffitta organizzazione aziendale e marketing: la sua unica preoccupazione è stata creare l’etichetta ideale. Ha scelto il terreno perfetto, curato il vigneto e attrezzato la cantina a regola d’arte. Sono state annate da favola. Il 2004, prevede Daniel Thomases, sarà una delle migliori della storia … La nuova frontiera dei vignaioli italiani? Il vino italiano, quello fatto con le uve italiane, che incarna secoli, alle volte millenni, di cultura e tradizioni, di adattamento di vitigni al territorio. Ed esprime non solo la specificità di suolo e clima, ma anche evoluzioni storiche, quegli usi e costumi che definscono e distinguono un popolo. Osservazione degna del generale Lapalisse, si potrebbe obiettare. Ma gli ultimi quindici anni della viticoltura italiana sono stati contraddistinti dalla disperata ricerca delle potenzialità non del Sangiovese e del Nebbiolo, bensì del cabernet Sauvignon e del Merlot, come se il compito principale del coltivatore italiano fosse quello di “gallicizzare” vini già in possesso di un controllabile profilo aromatico e gustativo proprio. Sbandamenti che sono sostati cari, in denaro sprecato, ma soprattutto un tempo perso, anche se una certa élite produttiva si è sempre tenuta ben alla larga certe pratiche effimere e inconcludenti.

Primus inter pares di questo gruppo ristretto, almeno per quanto riguarda il Sangiovese, è Gianfranco Soldera di Milano, e poi di Montalcino, sebbene le origini metropolitane e meneghine non siano di per sé una qualifica precipua per il ruolo che si è assunto: produttore della massima espressione della maggiore varietà rossa d’Italia, quella che domina le vigne della parte centrale del paese. Alle sue sorti sono legati i destini della Romagna, della Toscana e dell’Umbria, anche se i vignaioli locali, attirati dal canto di mille sirene, non sempre hanno dato grandi prove di fedeltà.

Soldera, invece, benché la sua dedizione al Sangiovese nasca da una più generale passione per il grande vino e dal desiderio di partecipare e vivere questo amore da protagonista, non da semplice intenditore. Massimo conoscitore del Barolo, amico personale di diversi dei nomi storici della zona, l’imprenditore avrebbe potuto trovarsi a sud di Alba quando è cominciata la ricerca della vigna dei sogni all’inizio degli anni Settanta. Unico problema, come l’uomo stesso commenta tre decenni dopo, con qualche nota di rammarico nella voce: “I vigneti migliori i vignaioli se li tengon per sé, non li vendono. Ora come allora”.

Montalcino era un’alternativa più che valida, però, anche se la realtà di questa parte della Toscana era ben diversa trentacinque anni fa: pur leggendario già allora, il vino, in un certo senso, quasi non esisteva. La superficie vitata della zona cominciava ad aumentare (non poteva essere diversamente: nel 1960, le vigne coprivano poco più di venticinque ettari), ma sul mercato si contavano solo venticinque etichette, cifra esigua rispetto al Barolo o al Chianti Classico, ma già più del doppio rispetto a un decennio prima. Il territorio, ancor più di adesso, era costituito da foreste e prati, poco abitati, poco coltivati, una specie di frontiera fra le zone di grande tradizione della Toscana centrale - Firenze, Siena, Arezzo, Montepulciano - che avevano contrassegnato non solo la storia del vino italiano, ma la civiltà della regione e dell’Italia tout court, e le vaste estensioni della Maremma, ancora più spopolata e priva di centri di storia e cultura.

Con un istinto infallibile. Soldera scelse una proprietà che faceva parte della linea di confine, nella fascia sud-occidentale della denominazione che parte del Castello di Argiano a sud e termina a nord del paese di Tavernelle, alla strada interpoderale che porta alla vecchia pieve di Santa Restituita. Qui l’orizzonte è di un infinito leopardiano, e dietro le ultime colline, invisibile ma presente come influenza climatica, c’è il Tirreno, i cui venti spazzano questa parte di Montalcino e mitigano la calura estiva della Toscana meridionale. Posto di una bellezza indescrivibile e, aggiunge Soldera, “di altissima vocazione per vini di grande nobiltà, cosa verificata subito dalle analisi della terra, ma quasi abbandonato al momento dell’acquisto: la crisi della mezzadria aveva svuotato la campagna”. Un’epoca era finita, ma i tratti distintivi della successiva erano tutt’altro che distinti, anzi erano tutti da definire.

E’ una delle più riuscite riscoperte del Sangiovese, della tradizione, dei metodi del contadino. Pochissime bottiglie per parlare della terra toscana ai pochi veri appassionati di tutto il mondo. Sarebbe logico pensare che un cosmopolita, broker assicurativo e quindi pienamente inserito nell’economia della metropoli e della propria epoca, impostasse la nuova azienda agricola secondo criteri puramente razionali e imprenditoriali. Invece, il compito che Soldera si pose all’inizio era di respiro molto più ampio: far rivivere la campagna, valorizzando il patrimonio naturale e culturale dell’ottica della ricerca dell’eccellenza assoluta. Le prime vigne furono piantate con i larghi spazi del passato, nel pieno rispetto della tradizione, ma con materiale genetico trovato sul luogo, selezionando le vecchie viti di Sangiovese più idonee a garantire alta qualità. Immediata la decisione di “scansare come la peste i nuovi cloni produttivi e massificanti dei vivaisti”.

Le vigne avevano bisogno di tempo per crescere e irrobustirsi, poiché e pressoché impossibile ottenere risultati elevati da viti giovani, e ci voleva tempo per lanciarsi nell’avventura del grande Brunello. Il vigneto Intistieti si rivelò presto all’altezza, ma quello accanto all’abitazione, che prese il nome Case Basse, richiese una dose maggiore di pazienza. Osserva il produttore, con comprensibile orgoglio: “Passarono diciotto anni fra l’acquisto della proprietà nel 1972 e la prima produzione di Un Brunello da questa vigna», lasciando intendere che si tratta di un record assoluto in Italia. Le rese sono di un’avarizia impressionante: nel 2004, annata di grande abbondanza in Italia, la produzione aziendale di Brunello di Montalcino, secondo le stime del titolare, «non arriverà a ventimila bottiglie da 7,5 ettari di vigneto”.

Chi entra in cantina trova pure l’attrezzatura di un’altra epoca: il luccicante acciaio di refrigerazione o dei serbatoi di fermentazione semplicemente non esiste: tutto è lavorato in legno, nei tronchi conici di una volta (“il vino è un organismo vivo dice Soldera - e tentare di produrlo in recipienti stagni, in assenza di ossigeno, è una bestialità”), e le temperature di fermentazione seguono un percorso naturale dalla pigiatura alla svinatura, senza alcun tentativo di guidarle o frenarle. Non trova posto neppure la barrique francese, alla quale è preferita la botte di rovere di Slavonia della tradizione. I vini si riposano e si affinano in un’originalissima cantina sottoterra con pareti di roccia viva, il galestro di Montalcino, “per mantenere freschezza e umidità - aggiunge Soldera - e per permettere al vino una lenta e tranquilla evoluzione, quattro o cinque anni di calma totale prima dell’imbottigliamento”. Lieviti selezionati e batteri per favorir la fermentazione sono banditi, così come i prodotti sistemici per combattere le malattie della vigna. L’unico concime consentito è lo stallatico selezionato dal Soldera, e la popolazione di inserti è tenuta sotto controllo da uccelli attirati da nidi seminati dal proprietario.

Una filosofia di lavoro e di vita, insomma, che punta all’essenzialità e al rispetto dell’ambiente, ma al servizio di un nuovo concetto di qualità, non di ideologie o ecologismi astratti. Agli ottimi primi Brunello di Montalcino degli anni Settanta sono seguiti millesimi storici come il 1981, il 1983 e il 1985, che hanno ridefinito la potenzialità della zona e del Sangiovese. Ma il concetto di annata difficile o piccola non esiste per questo produttore come testimoniano gli strepitosi Brunello 1987, 1991, 1994, millesimi in cui tanti altri produttori della denominazione si sono dannati l’anima per poter presentare qualcosa di accettabile. E forse siamo solo agli inizi: il Brunello di Montalcino Riserva Intistieti 1999, di prossima commercializzazione potrebbe benissimo essere il miglior vino mai conferito da questa terra, mentre i vini del 2000, annata in cui buona parte della zona si trovò alle prese con uve cotte dalla canicola di agosto, sono quasi allo stesso livello.

Pronostica Soldera, per cui ogni promessa è debito: “i 2004 saranno fra i migliori vini che Case Basse ha mai prodotto”. Reinventato il vino del contadino, ma per i palati più esigenti e raffinati, l’uomo della città ora si è ritirato in campagna, dove studia nuove soluzioni per uve e vini antichi, bottiglie che parleranno della propria terra agli appassionati di Parigi, Londra e New York. Ma sempre con accento toscano.

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