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Il Sole 24 Ore

Vino, boom degli investimenti. Gli operatori: significa che le aziende reagiscono alla crisi - Ancora corsa aperta all’acquisto di vigneti ... Il business del vino perde slancio? Se dipendesse dall’andamento delle esportazioni (-16,6% in quantità e -4% in valore nel 2003), la risposta sarebbe affermativa: gli affari del vino made in Italy hanno più di un problema e la concorrenza internazionale ne sta approfittando. Se poi aggiungiamo che il mercato interno non è al massimo delle attese, allora il rischio peggiore cui ci si espone è uno scoramento generale. Ma non è così. Al contrario, la sensazione è che proprio questa congiuntura così problematica abbia indotto gli addetti ai lavori a una maggiore ponderazione in fatto di acquisizioni di vigneti e cantine nelle aree di maggiore visibilità, privilegiando invece i vigneti più convenienti e altrettanto promettenti sotto il profilo produttivo. Si scopre l’acqua calda dicendo che, dopo la corsa alle tenute del Centro Italia, negli ultimi due/tre anni la domanda ha privilegiato le aree agricole delle regioni meridionali. Contemporaneamente si è verificato una maggiore ponderazione nell’uso dei capitali di rischio, mentre sono cresciute notevolmente le iniziative dirette a finanziare gli investimenti fissi che, si stima, avrebbero superato nel 2003 i 550 milioni di euro, vale a dire il picco più alto mai raggiunto. È un fatto che le imprese vinicole oggi siano più che mai propense a realizzare progetti di ampliamento o di miglioramento delle tenute già disponibili. Si tratta cioè di investimenti che, diversamente dalle acquisizioni tout court, esprimono dinamismo e fiducia in questo sistema produttivo valutato alla produzione 7,4 miliardi di euro. Tra i tanti spunti offerti dal recente Focus Mediobanca dedicato al settore del vino ve n’è uno che mette in piena evidenza il fatto che le imprese coinvolte nel panel (60 aziende rappresentative del 37% del valore totale della produzione) hanno eseguito cospicui investimenti, e lo hanno fatto in concomitanza di una tendenza di mercato tutt’altro che favorevole. Al punto che l’indice di efficienza complessivo dell’impresa (Roi), dopo avere toccato il picco dell’11,7% del 2000, ha dovuto ripiegare all’11,6% nel 2001 e scendere ulteriormente a 10,8% nel 2002. Del tutto opposta la curca degli investimenti fissi, praticamente raddoppiati dal ’98 a oggi: erano 106 milioni e sono diventati 203 milioni nel 2002, anno di maggiore crescita (+28% sull’anno prima). Per gli analisti questa performance è stata favorita dalla legge Tremonti Bis, poi venuta meno senza per questo penalizzare gli investimenti, diventati 206 milioni nel 2003. È considerando questi fattori di crescita e applicando i parametri del Focus a tutte le 1.915 imprese vinicole attive nella penisola, che la voce investimenti va a toccare il record dei 550 milioni di euro. Un flusso di spesa che secondo Gianni Martini, amministratore delegato del gruppo Fratelli Martini di Santo Stefano d’Alba (Sant’Orsola, Villa Lanata, Conti) «è la conferma del fatto che gli imprendiotri vinicoli, indipendentemente dalle difficoltà del momento, continuano a credere in questo settore». Tesi che spiega il piano da 20 milioni di euro che il gruppo piemontese (92 milioni di euro di cui il 90% all’export) ha di recente varato per ristrutturare le proprie tenute agricole, nonchè realizzare una maxi-barricaia da 6mila pezzi prospicente la sede centrale di Santo Stefano. Ma come si spiega che tale dinamismo raggiunga il suo massimo nel momento in cui la congiuntura consiglierebbe una politica di basso profilo o comunque attendista? «È una provocazione che accetto volentieri», risponde Sergio Zingarelli, presidente di Rocca delle Macìe di Castellina in Chianti (4,5 milioni di bottiglie e 23 milion di fatturato). «È in contesti come questi - spiega - che bisogna avere il coraggio di reagire. Se fosse solo una questione di prodotti e di prezzi, i problemi li supereremmo facilmente, data la qualità e l’originalità della nostra ampia offerta. Semmai i punti deboli sono altri, come per esempio le dimensioni aziendali che certo non ci premiano, oppure la normativa che ci vede svantaggiati rispetto ad altri Paesi nuovi vignaioli». Dunque, aziende troppo piccole? «Non è questione di mettere sotto accusa nessuno» premette Giacinto Giacomini, direttore generale della Cavit, tra i più importanti consorzi vitivinicoli italiani e grande sportatore di vini made in Italy in Usa. «La questione è che - osserva - quando le cose vanno bene in genere si è portati a rinviare i problemi sul tappeto. Invece sappiamo che l’euforia ha sempre il proprio rovescio e questo bisogna cercare di prevenirlo con iniziative ad hoc. «Nell’Italia delle mille cantine - continua Giacomini - la difficoltà principe è la capacità di fare massa critica. Il problema è risaputo da sempre a tutti i livelli, ma quanti finora hanno affrontato adeguatamente la questione?». Ma nell’Italia delle mille cantine è davvero la dimensione a fare la differenza? «Più che puntare ad allargare i confini dell’azienda - sostengono i fratelli Bava della omonima azienda di Cocconato d’Asti (50 ettari di proprietà, più 50 in affitto) - noi riteniamo sia opportuno fare qualità: siamo convinti che il consumatore avveduto non rinunci a un buon bicchiere di vino, soprattutto se questo viene offerto a un prezzo equo». Già, il prezzo: un argomento che di questi tempi solletica parecchio per i riflessi sulla borsa del consumatore e anche delle aziende produttrici. Per esempio, sui i tempi di pagamento che, a detta di Eleonora Uberti delle tenute Uberti di Erbusco, azienda di nicchia in Franciacorta (150mila bottiglie) «si stanno pericolosamente allungando, con tutte le conseguenze che questo problema comporta per un’azienda che lavora e si impegna sulla qualità, ma non ha la forza dei grandi numeri».

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