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Il Sole 24 Ore

Made in Italy - Con le piantine esportati anche i nomi Legge a tutela dei vitigni ... Una proposta di legge per "catalogare e tutelare" da clonazioni internazionali i vitigni "autoctoni", ovvero di origine nazionale. La proposta fa il paio con la risoluzione che la Commissione Agricoltura della Camera ha presentato al Governo, invitandolo ad adottare in ambito Ue tutte le iniziative necessarie per estendere anche ai vini di importazione gli obblighi cui sono sottoposti i produttori italiani in tema di tracciabilità ed etichettatura. Coincidenza vuole che l’una e l’altra arrivino nel momento in cui dai Paesi del Nuovo mondo si hanno notizie di crescite record delle produzioni: in Australia la vendemmia appena conclusa ha raggiunto i 18,6 milioni di quintali di uva, in aumento del 40%; in Nuova Zelanda la percentuale è stata del 100%, arrivando a sfiorare i due milioni di quintali. Ce n’è abbastanza per fare riflettere su quanto potrebbe accadere sui mercati internazionali del vino già dal prossimo autunno, quando nel Vecchio continente si dovrebbe tornare a vendemmie più ricche rispetto alle ultime due annate. Non è noto se i parlamentari fossero a conoscenza delle vendemmie dei Paesi australi, certo è che le iniziative promosse tendono sia a dare maggiore visibilità e tutela alle produzioni tipiche del made in Italy, sia a creare condizioni uniformi per tutti i produttori. Ma mentre la risoluzione porta inevitabilmente a Bruxelles, la proposta di legge ha àmbiti nazionali, dove gli "autoctoni" sono assurti a tema del giorno. Il merito è di alcuni grandi vitigni regionali che negli ultimi anni hanno collezionato un successo dopo l’altro. Gli esperti ne hanno catalogato un migliaio, ma solo una decina ha visibilità globale. Si tratta di cloni (Sangiovese, Nero d’Avola, Primitivo, Ribolla, Refosco ...) molto corteggiati dai Paesi del Nuovo mondo, che hanno cominciato a importarli per riprodurli nelle loro terre. Chiamandoli con il nome italiano. Il che può avere suscitato qualche preoccupazione tra gli addetti ai lavori. Di qui la proposta di legge, sottoscritta da un folto gruppo di parlamentari di ogni colore politico. Manlio Collavini, primo firmatario e vignaiolo in Friuli, dice: «Il rischio maggiore che corriamo è il depauperamento della nostra viticoltura. Non possiamo certo evitare che i vivaisti vendano all’estero le barbatelle, ma almeno lo facciano utilizzando il codice scientifico dei vitigni. Vendendoli con il nome italiano gli australiani o i californiani si sentiranno autorizzati a clonarli tal quale. Facciamo invece come fanno i francesi, che vendono con il nome in codice». Ma non tutti sono d’accordo sui rischi che si corrono. Non ci crede, per esempio, Stefano Cinelli Colombini, vignaiolo in Montalcino con la storica Fattoria dei Barbi. "A me sembra eccessiva - dice - questa preoccupazione. Proprio i francesi hanno imposto il loro gusto vendendo i cloni in francese; quello che hanno evitato di fare è vendere le denominazioni. Ma anche noi quando esportiamo Brunello o Barolo non liberalizziamo la Doc. Per contro vendere Sangiovese o Nebbiolo fa solo promozione all’Italia".

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