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Il Sole 24 Ore

I vini italiani soffrono negli Usa. I prodotti australiani conquistano nuove fette di mercato grazie ai prezzi competitivi. Nei primi quattro mesi dell’anno le esportazioni oltreoceano scese dell’8,9% - Salgono Spagna e Germania ... L’Australia ha dunque scippato la leadership dei vini italiani in Usa, che durava dal lontano 1974. I dati diffusi dall’Iwfi di New York parlano chiaro: nei primi sei mesi 2004 i vignaioli del Nuovissimo mondo hanno esportato negli States 887mila ettolitri, scalzando appunto l’Italia, in calo del 9% a 864mila; ben terza la Francia a 361mila ettolitri, in netta flessione quantitativa (-13%) e soprattutto in valore (-23%). Il sorpasso, per quanto mal digerito, non ha sorpreso gli addetti ai lavori. I quali avevano già messo in conto che questo potesse accadere: lo stesso Iwfi osserva che dal 1999 al 2004 l’export australiano in Usa è cresciuto del 370 per cento. Questo spiega perchè si ha la sensazione che il sorpasso dell’Australia possa essere l’occasione per avviare finalmente una seria riflessione su alcune problematiche del sistema vino made in Italy. Un sistema che, vale la pena ricordare, con 9 miliardi di euro di affari totali e 2,6 miliardi di saldo attivo della bilancia commerciale è un vanto dell’economia agroalimentare tricolore; una peculiarità che da qualche tempo è entrata nel cono d’ombra provocato proprio dalla prepotente concorrenza dei nuovi Paesi produttori, Australia in testa, che hanno finito per rimescolare le carte di un vecchio mazzo. «Come sempre i nodi vengono al pettine, e il vino non fa eccezione», è il commento realistico di Marco Caprai, vignaiolo di Sagrantino a Montefalco, in Umbria. «La battuta d’arresto americana - spiega Caprai - non deve sorprendere, caso mai deve servire ad aprirci gli occhi su un fatto che reputo assurdo: non si può andare alla conquista di un mercato con mille etichette e con una politica promozionale faragginosa». Per Giuseppe De Santis, della vinicola abruzzese Farnese (10 milioni di bottiglie per il 95% esportate), «la chiave di tutto sta nella competitività. È impensabile andare a vendere vini a un certo prezzo quando gli altri sono in grado di offrire un prodotto simile alla metà». L’esempio di De Santis anticipa i dati dell’Istituto newyorkese, che evidenzia la frattura tra Italia e Australia, con i secondi che vantano prezzi medi fob da 3,94 dollari la bottiglia (5,90 al dettaglio), mentre il vino made in Italy parte da 4,64 per arrivare a 7 dollari al consumatore. Dunque una questione di prezzo. «Ma certo non l’unica», suggerisce Pio Boffa, titolare della Pio Cesare di Alba con alle spalle secoli di vita di Barolo e Barbaresco. «Quanto sta accadendo sul mercato americano è l’espressione dei tempi, dove in presenza di un mercato difficile di per sè, si somma l’infelice rivalutazione dell’euro o, meglio, la svalutazione del dollaro. Questo scompenso valutario è proibitivo per un Paese come l’Italia, che di sicuro non può pensare di aggirare l’ostacolo attuando politiche di prezzo al ribasso». Politiche che anche l’amministratore delegato del Giv, Emilio Pedron, sconsiglia dal praticare. Anche perché il rappresentante del maggiore gruppo vinicolo italiano e maggiore esportatore (da Lamberti a Mellini, passando per Santi, Negri, Fontana Candida e molti altri marchi) ritiene che non bisogna lasciarsi impressionare dal sorpasso australiano. «Questo tipo di successo - dice - non mi preoccupa affatto; non mi sembra infatti abbia le basi per durare a lungo. I conti dei nostri amici concorrenti, proprio perché generati da politiche di prezzo stracciati che sfiorano il dumping, sono falsati da margini che non esistono. Mi risulta che diverse aziende australiane hanno i conti in rosso, sicché mi chiedo, per quanto tempo gli azionisti delle aziende vinicole quotate in borsa, come lo sono i grandi gruppi australiani, possono rinunciare ad avere dei dividendi?».

In crisi anche le bottiglie francesi. Il mito delle case transalpine soffre la concorrenza dei produttori emergenti. Finito l’ostracismo politico: la competizione ora è sul costo ... Fino alla fine degli anni 90, una bottiglia su tre di vino importato negli Stati Uniti era francese. Oggi la percentuale è precipitata sotto il 15% e si è ormai iniziato a parlare di "crisi del vino francese" in America. È possibile che il vino sia vittima della politica, o semplicemente dell’evoluzione del mercato? «Per alcuni mesi dopo lo scoppio della guerra in Irak nel marzo 2003 alcuni nostri grossi clienti si sono rifiutati di comprare vino francese, per protestare contro il mancato appoggio della Francia alla politica estera americana - racconta Peter Mahan, direttore della divisione di vini francesi della Wine Warehouse di Los Angeles -. Ma il boicottaggio è durato poco, qualche mese al massimo. Il calo delle importazioni di vino dalla Francia è dovuto quasi esclusivamente a motivi economici e ai cambiamenti strutturali del settore vinicolo a livello mondiale». L’apprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, ad esempio, ha avuto l’ovvio effetto di far lievitare i prezzi in dollari dei prodotti importati; ma questo fattore ha penalizzato tutti gli importatori di vino, non solo i francesi. Il crollo dei prezzi dei vini californiani, dovuto a una massiccia sovrapproduzione, ha esercitato inoltre pressioni concorrenziali e ha fatto salire le vendite di vini domestici in rapporto ai vini esteri; ma anche questo fattore ha influenzato le vendite di tutti i vini importati. L’elemento che può meglio spiegare la crisi dei vini francesi in Usa è piuttosto la concorrenza dei Paesi "emergenti" nell’universo vinicolo. I vini australiani, sudafricani, spagnoli e cileni stanno conquistando grosse fette di mercato grazie a un vantaggioso rapporto prezzo-qualità. Nella fascia di prezzo dei 5-15 dollari a bottiglia, questi vini costituiscono una grossa minaccia per i vini francesi e italiani, che tradizionalmente hanno detenuto per anni il primato negli Stati Uniti. «La forza dell’euro e il crollo dei prezzi dei vini californiani hanno esacerbato una situazione già critica per i vini francesi e italiani, i cui costi di produzione sono più alti che in Australia, in Sudafrica o in Spagna - aggiunge Enrico Nicoletta, responsabile dei vini italiani alla Wine Warehouse -. Dopo il boom economico degli anni 90, quando le vendite di vini importati erano alte per tutti, la concorrenza si gioca principalmente sul prezzo». Solo i vini pregiati sono rimasti sostanzialmente immuni dalle trasformazioni del settore vinicolo degli ultimi anni. I collezionisti continueranno sempre a comprare i Petrus o i Romanee Conti, o i Sassicaia e Solaia, indipendentemente dai prezzi o dalla politica. Sono i vini della fascia medio-bassa a risentire delle pressioni concorrenziali e l’elemento politico ha inflitto quindi il colpo di grazia ai vini francesi. Ma non è tutto, dice Peter Mahan: «I produttori francesi di vino non hanno mai voluto investire troppo nel marketing negli Stati Uniti, mentre tutti gli altri Paesi - Italia compresa - hanno grossi budget promozionali per far pubblicità ai loro vini».

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