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Il Sole 24 Ore

Il Prosecco alza la testa ... Succede sempre da bambini di soffrire un diminutivo che, da adulti, vorremmo scrollarci di dosso, perché non vogliamo più identificarci con un passato pieno di brufoli o di teste a pera. Così capita pure a un vino, il Prosecco, per anni soprannominato "prosecchino" in casa (Marca Trevigiana) e fuori. A dir il vero non ho mai capito (anche dopo anni di permanenza nella bella Treviso) se il termine fosse affettuoso oppure un diminutivo... quasi a definirlo un vino di Serie B. Certo è che in giro per l’Italia quell’offerta di aperitivo gratis et amore dei non ha giovato, per lungo tempo, all’immagine di un vino spumante, oggi in controtendenza, in presenza della chiara crisi dei consumi di vino, e nonostante 38 milioni di bottiglie (74% spumante; 24% frizzante ; 2-3 vino tranquillo). Si può ben dire che c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico nelle bottiglie (non tutte, specifichiamo bene perché alcune sono tuttora troppo cariche di zuccheri). Innanzitutto non siamo più nell’era (anni 70-80) della sovrapproduzione indirizzata a un pubblico che non faceva distinzioni tra frizzante o spumante o era attratto da operazioni commerciali (nani ghiacciati) oggi improponibili. Molti produttori infatti hanno capito che il loro Prosecco ha delle peculiarità strettamente legate al territorio (in particolare al terroir di Valdobbiadene), quindi da non sentirsi "prosecchino" o "spumantino" rispetto ai concorrenti di Franciacorta o del Trentino. La verità è che questo spumante è uno dei pochi vini made in Italy che non ha in alcun modo seguito modelli francesi o il gusto internazionale imposto dai guru che creano la domanda in Europa e nel mondo. Anzi è il Prosecco oggi ad avere dei fotocopiatori in diverse parti del mondo, a cominciare dal Brasile. Confesso di non aver mai fatto follie per queste bollicine della Marca Trevigiana, ma negli ultimi tempi non posso disconoscere il salto di qualità. Certo è che in passato ci sono stati alcuni personaggi a tenere alto il livello di questo prodotto a cominciare da quel Primo Franco (l’azienda si chiama Nino Franco di Valdobbiadene) che ha sempre messo sul mercato vini di qualità. Non solo, ma con il suo Rustico, prodotto in circa 500mila bottiglie ha permesso di diffondere la conoscenza di un vino semplice e delicato nei profumi. Nel tempo il gruppo del Prosecco, non più prosecchino, si è via via incrementato a cominciare dalla dinastia Bisol: da un lato Gianluca con il marchio Desidero Bisol (Prosecco extra dry e Garnei) dall’altro Paolo Bisol con il marchio Ruggeri (Prosecco brut Quartese; Prosecco di V. Extra dry), quindi Adami e Canevel. Allo stesso tempo però confesso di amare molto alcuni vini che sono strettissimi parenti del Prosecco: innanzitutto lo straordinario "passito" di Bruno Agostinetto (località Saccol di Valdobbiadene) che produce anche un Prosecco brut (Nogarole) e uno Extra dry. Questo vino (Mondeserto Passito), prodotto in poco più di 2500 bottiglie, è davvero unico, da inserire nel gotha dei passiti italiani, buono per i formaggi, ma pure per il foie gras. Il passito di Prosecco lo produce anche Gianluca Bisol (l’etichetta è Duca Dolle) sempre in quantità limitata con la tecnica "solera" (risulato di dieci annate di produzione). Peccato che sia così poco disponibile. Altra passione è diventata, da poco, il Prosecco sur lie (sui lieviti). Prima della diffusione del metodo charmat, la tradizione spumantistica prevedeva una leggera rifermentazione in bottiglia che portava a vini moderatamente frizzanti e con deposito sul fondo. Loris Follador (azienda Coste Piane, frazione Santo Stefano-Valdobbiadene) è la punta di diamante di questa interpretazione, ma anche Agostinetto produce un ottimo Prosecco sui lieviti (Jare). Si parla sempre più spesso di vitigni autoctoni, ma chi meglio di questo spumante della Marca Trevigiana può esser preso come modello vincente? Sine qua non. (arretrato de "Il Sole 24 Ore" del 12 settembre 2004)

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