02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

Il Sole 24 Ore

Vino e tecnologia - Trent’anni il lancio del rosso che ha aperto la strada ai «supertuscan»
La rivoluzione del Tignanello ... Una prevalenza di uve Sangiovese, l’aggiunta di Cabernet Sauvignon, un tocco di Cabernet Franc e il Tignanello di casa Antinori è servito. La ricetta per fare questo vino rosso made in Italy - che, con il Sassicaia, ha idealmente inaugurato la stagione dei "supertuscan" - sembra di una semplicità disarmante. Solo che risale a trent’anni fa, quando in Toscana il Chianti lo si faceva con il Sangiovese, il Cannaiolo e due uve a bacca bianca come il Trebbiano e la Malvasia. Il risultato era un vino «con poco colore, debole di corpo e con i consumatori che cercavano altrove», ricorda Piero Antinori, l’artefice di questo vino allora assolutamente innovativo e tuttora emblema dei grandi rossi d’Italia. In realtà il solo pensare a quella ricetta ha imposto agli autori (Antinori si è avvalso dell’ausilio dell’enologo Giacomo Tachis e del professore Emile Peynaut dell’università di Bordeaux, deceduto pochi giorni fa) anni di ricerca sul prodotto e investimenti sul campo e in cantina che forse ancora troppo pochi s’immaginano. Una rivoluzione che ha cambiato letteralmente il modo di produrre di un’Italia vinicola che negli anni Sessanta faceva esclusivamente grandi quantità e vendeva prodotto sfuso. Nell’Italia vinicola di oggi, invece, sono a decine, forse a centinaia i vignaioli che utilizzano le basi del Tignanello, anche se i risultati restano molto diversi tra loro. I produttori sanno che per fare un grande vino ci vuole l’uva buona e sana, e sanno pure che questa da sola non basta. Altri fattori come la terra, l’esposizione al sole, le tecniche di allevamento delle viti, le tecnologie di cantina, i tempi di affinamento hanno il loro peso specifico. Soprattutto sanno che si tratta di elementi che non si trovano gratis - recenti e persino esagerate manifestazioni nell’accapparramento dei vigneti lo hanno dimostrato -, né si improvvisano. Come non sono stati improvvisati i successi seguiti all’abbandono del modello di produzione degli anni Sessanta. Piero Antinori quel modello lo ricorda bene. «Erano gli anni - dice - in cui la mezzadria cedeva il passo ai sussidi Feoga e prevaleva la massificazione del prodotto: i vivaisti sfornavano cloni per fare grandi quantità; nei campi la cultura della specializzazione non si sapeva cosa fosse, mentre prevaleva la teoria dei bassi costi. Tutto questo in viticoltura favoriva l’applicazione di sistemi di allevamento fatti di poche piante per ettaro - massimo duemila ceppi - che però dovevano produrre tanto». Oggi questo è un pallido ricordo: nei vigneti si arriva ad avere 15mila piante e la politica della qualità ha avuto il sopravvento, con disciplinari produttivi severi e con la politica del diradamento dei grappoli nei casi di produzione eccessiva, che si afferma sempre più. Davvero altri tempi, ma allora, negli anni Sessanta, ci voleva molto coraggio per remare contro. E ancora di più lo era in Toscana, dove, persisteva la storica ricetta delle uve bianche e rosse di Bettino Ricasoli. Una logica che Antinori disconosce, sviluppandone un’altra in cui oltre all’esclusività delle uve trova posto la fermentazione malolattica (nuova per l’Italia), capace di "arrotondare" il gusto, apre all’uso dei caratelli al posto delle grandi botti. E adotta la teoria delle grandi annate, per cui se un anno la vendemmia non convince, il Tignanello non vede la luce.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024

Pubblicato su