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Il Sole 24 Ore

«Terra di lavoro» e di conquiste ... E fu amore a prima vista, anzi al primo sorso, non quello di birra, divenuto poi un best seller letterario. Si tratta di vino, di un vino rosso campano. Il mio innamoramento per i rossi (per non parlare dei bianchi) di questo territorio l'ho dichiarato più volte: in primis il Montevetrano di Silvia Imparato, dalla sua prima annata fino all'ultima assaggiata, che ha fatto conoscere in Italia e all'estero le potenzialità di una terra forse trascurata, nonostante abbia una storia vinicola come poche altre. Poi l'incontro ravvicinato con il Pellagrello rosso e il Casavecchia di Vestini e Campagnano. Quindi un coupe de foudre, a suo tempo, per l'aglianico di Antonio Caggiano (Taurasi Macchia dei Goti 1995, 1997, 1998, 1999, 2000) trasformatosi poi in una passione continua anche per il "Bue Apis" della Cantina del Tiburno. Due capolavori del "suggeritore esterno", come ama definirsi Luigi Moio, di cui non posso non ricordare un altro mio rosso assai amato, quel Falerno del Massico primitivo (uve primitivo), opera del padre Michele Moio. Questo vitigno autoctono, l'aglianico, mi ha conquistato non solo in Campania, dove potrei ancora aggiungere il tradizionale vigna cinque querce 1999 e 2000 di Salvatore Molettieri: la "simpatia amorosa" sta continuando anche nel Vulture, in quella terra ricca di giacimenti chiamata Lucania. Davvero eccellenti sono i vini ottenuti da uve aglianico dalla tenuta Le Querce (Vigna della corona, rosso di Costanza) con lo zampino del professore Leonardo Valenti. Da non dimenticare di questa azienda emergente anche il Tammurro nero, antico vitigno autoctono. E ancora in Basilicata, sempre da uve aglianico, il Basilisco dell'omonima azienda, nonché il Roinos dell'azienda Eubea e i vini delle cantine del Notaio con i nomi tratti dall'attività professionale (La Firma, il Repertorio e l'Autentica). Dunque uve autoctone, campane o lucane; questa passione è diventata ancor maggiore quando mi sono imbattuto nelle bottiglie di un rosso dall'etichetta davvero inusuale: «Terra di lavoro» dell'azienda Fontana Galardi di Sessa Aurunca. Non ho mai visitato la cantina di cui mi hanno decantato il posto e la posizione, ma di bottiglie ne ho scolate diverse. Ebbene è un vino ottenuto sempre da vitigni autoctoni: ovviamente il mio amato aglianico con il piedirosso (uve quest'ultime che hanno sempre offerto ottimi risultati nell'isola d'Ischia) attraverso il quale si percepisce cosa significhi terroir per i francesi. Lo si sente, lo si avverte il sapore del territorio. Non è un vino morbido, rotondo, come quelli di successo, purtroppo, dal gusto internazionale, come si dice. Anzi presenta delle spigolosità che lo rendono unico, così come quel sentore di affumicato che si avverte nel 2001. Ancor più intrigante, originale è l'annata 2002. Si tratta di un vino in cui c'è il naso di Riccardo Cotarella (presente anche nel Montevetrano).Terra di lavoro è una produzione davvero limitata, forse non supera le 10mila bottiglie. Si potrebbe definire alla francese "vin de garage". Ebbene mentre assaggiavo il 2001 la mia memoria olfattiva è corsa forse al più grande dei vini "garage": al francese Le Pin. Chissà forse ho scritto un'eresia, ma così è se mi piace, in barba alla Critica della Ragion Vinicola. Sine qua non.

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