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Il Sole 24 Ore

Un uomo di lettere in cantina. Con Brera e Pizzetti negli anni 60 reinventò il modo di parlare di cultura materiale ... Certo che hanno avuto predecessori illustri, ma fino a quando non si sono sentite le loro voci, intorno agli anni 60 del secolo scorso, lo sport, il vino e le piante erano temi molto più noiosi di quanto lo siano adesso. Penso a Gianni Brera, Luigi Veronelli e Ippolito Pizzetti. Più o meno coetanei, sono stati degli apripista nel trattare con piglio letterario e caratteriale veemenza, temi che, fin'allora, erano stati riservati all'anonimo linguaggio dei tecnici. Ippolito, cui è appena stata conferita la laurea honoris causa in architettura dall'Università degli studi di Ferrara, ricordava nella lectio magistralis i temi di cui si è alimentata tanto la sua passione, quanto la sua vis polemica, la sua capacità di sdegno per le pratiche dell'ignoranza, per i luoghi comuni, le prepotenze. Ippolito è con noi e ci si augura ci rimanga a lungo per alimentare la pratica della permeabilità tra discipline, quella del dubbio e quella dello sdegno in discepoli sempre più giovani. Brera e Veronelli no.
Veronelli è mancato da poco ed è stata la musica di una banda ad accompagnarlo nella sua ultima stanza: sotterranea come di solito sono le cantine, mete delle sue esplorazioni e che, da quello che scriveva, ci siamo abituati a considerare degli ateliers d'artista. Quando lui ha cominciato a occuparsi di vini, a proporre il vino come espressione alta della nostra cultura e coltura, le cantine erano piene di salnitro, c'erano ancora quelli che andavano bambini, come fosse un gioco, a pestare, a piedi scalzi, l'uva nei tini. Di vini Doc non si sentiva parlare, i vitigni autoctoni non avevano dignità di parola: erano quelli di sempre.
Quelli dei dialetti. I tappi ogni tanto tenevano, ogni tanto no. I padri assaggiavano: no, questa no, hmm, questa può andare, questa è buona, e la bottiglia veniva portata a tavola. Le campagne si svuotavano, le città si riempivano di persone che, come faro di comportamento, guardavano ovunque meno che alla tradizione autoctona, tanto per usare un termine oggi fecondo.
Lui, era uomo di lettere e filosofia: il che vuol dire tutto e vuol dire niente; ma la sua storia ricorda il consiglio di chi, a una giovane in cerca della sua strada, raccomandò: scegli qualsiasi cosa, ma fa in modo che il tuo nome sia immediatamente collegabile all'argomento scelto. Il fatto è che il binomio: VinoVeronelli non basta a descrivere un uomo che della sua vita sembra aver fatto una bella avventura. E una traccia, per la storia di questa avventura, è ben percepibile nella sua stranota guida: I vini di Veronelli,nota bene: Veronelli editore. Una casa editrice che da una parte ha tutta la sua selva di guide: vini, alberghi, ristoranti, oli, ma pubblica anche Lettere dall'Italia di Chateuabriand, Viaggio in Sicilia di De Amicis, Bacco in Toscana di Redi. Da parte sua la Guida I vini di Veronelli 2005 è una galleria di personaggi, un repertorio di storie, un catalogo di date tali da interessare anche l'astemio più convinto, purché interessato alle vicende di questo Paese. Il solo sfogliare le pagine suscita la curiosità di chi nota una concentrazione di tre stelle blu (giudizio a un'annata di un vino, già ai vertici delle recedenti edizioni, che abbia ottenuto valutazioni superiori ai 91 centesimi) a vini come Amarone, Valpolicella, Recioto. Oppure verso diversi Montefalco Sagrantino. Poi c'è una pagina diversa da tutte le altre in cui ci sono tre simboli che accompagnano tre dei 20 vini che «hanno emozionato Veronelli nel corso degli assaggi dell'ultimo anno».
La pagina è quella in cui si ricorda l'Azienda Agricola di Francesco Gravner e si racconta delle 30 anfore di terracotta da 2.000 litri che Josko Gravner ha fatto arrivare dal Caucaso, terra primigenia di ogni vino, per affinare i suoi vini, una volte interrate fino al collo. «Veramente, ne avevo chieste 60, ma il viaggio in quelle strade che sembrano torrenti, ha fatto le sue vittime», dice il viticultore del Friuli Venezia Giulia che ci avverte di aspettare fino al maggio 2005 per assaggiare il primo bicchiere uscito dalla terracotta, materiale che potrebbe essere additato come simbolo di una ricerca di "spasmodica naturalezza" in vista "di futura eccellenza". (arretrato de "Il Sole 24 Ore" del 5 dicembre 2004)

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