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Il Sole 24 Ore

Vino a caccia di marketing. Nei primi tre mesi si consolida l'export verso Usa, Canada e Gran Bretagna. Raimondi (Ice): « Scarsa presenza nei Paesi emergenti » Denominazioni d'origine sottoutilizzate ... Il quadro generale è molto variegato, ma un dato di fondo comune c'è: il vino italiano ha bisogno di innovative strategie di marketing per entrare nei mercati emergenti e per non cedere terreno ai temuti concorrenti extra Ue sulle piazze dove la presenza del made in Italy è consolidata. Su questi temi è ruotato il confronto che ha animato fino a ieri a Taormina il sessantesimo congresso dell'Associazione Enologi Enotecnici italiani, la più rappresentativa organizzazione che opera nel settore vitivinicolo.

Nei primi tre mesi dell'anno - come rileva Stefano Raimondi dell'Ice - le vendite all'estero di vino hanno confermato una sostanziale progressione, in particolare sui mercati del Nord America, dove gli Stati Uniti, con un valore di 740 milioni, si mantengono come primo Paese importatore. Ed è confermata la debolezza del mercato tedesco che tuttavia mantiene la seconda posizione con un valore di 717 milioni di euro. La preoccupazione nasce dall'esame dei dati strutturali di mercato. Più dell' 89% delle nostre esportazioni è focalizzato in appena 11 Paesi.

Troppo pochi per essere veramente globalizzati. Alla luce anche del fatto che sui mercati emergenti l'Italia ha una presenza più che simbolica. Nel grande bacino asiatico la nostra quota è appena del 4% - rileva Raimondi - mentre in Russia l'Italia raggiunge il sesto posto dietro all'agguerrita Spagna ed è preceduta da Moldavia, Francia, Georgia, come sottolinea il responsabile del settore vini dell'Ice di Mosca, Fabrizio Camastra.

Lo scenario è completato dalla messa a fuoco delle vendite di vino italiano in Canada, paese di sbocco importante, sottolinea Giuseppe Vanenti, responsabile dell'area vini dell'Ice di Montreal, ma anche cartina al tornasole della inarrestabile crescita della presenza cilena e soprattutto australiana. Nelle province canadesi l'Italia ha una quota di mercato del 17,8% preceduta dalla Francia con il 23 per cento. Ma da almeno tre anni l'Australia ha messo a segno una crescita costante a due cifre e ora controlla il 14,7% dell'export mentre il Cile si è portato all' 11,6 per cento.
A questo punto come ha più volte ribadito il presidente dell'Assoenologi, Mario Consorte, stare fermi equivale a un suicidio. «Tutto nasce - dice Consorte - da una colpevole distrazione». In pratica i paesi tradizionali produttori (Francia e Italia in primis) non si sono resi conto che la coltivazione della vite si è espansa in tutto il mondo con brillanti risultati qualitativi e quantitativi.

«Oggi - aggiunge il presidente di Assoenologi - dobbiamo rimarcare l'avvenuto superamento dei nostri 3,5 milioni di ettari coltivati da parte dei nuovi paesi produttori che totalizzano ben 4,3 milioni di ettari».

Non solo i concorrenti hanno aziende più strutturate, costi di manodopera e produzione più bassi, politiche commerciali più aggressive e livelli qualitativi di primo piano. Per questo Consorte spiega che: «È arrivato il momento di essere consapevoli dei problemi».

Dire al cliente consumatore sia italiano che internazionale che il vino è sinonimo anche di territorio, quindi di made in Italy, non basta. Occorre mettere ordine all'interno del nostro sistema di classificazione dei vini (la riforma della Legge 164 sulle Doc tarda ad arrivare e non accontenta la filiera) e bisogna ripensare alle strutture delle aziende, con una maggiore apertura alla meccanizzazione per abbattere i costi produttivi. E sul tema della denominazione dei vini insiste anche Giuseppe Martelli, direttore generale dell'associazione. «Se da un lato si prevede che un vino non possa essere riconosciuto come Doc se prima non ha avuto una militanza di almeno cinque anni come indicazione geografica - sottolinea Martelli - è altrettanto giusto che se una Doc non viene potenzialmente utilizzata per un certo numero di anni, essa venga declassata a indicazione geografica ».

Da una elaborazione di Assoenologi emerge che delle 335 Denominazioni italiane attualmente in vigore ben 90 Doc utilizzano meno del 50% del loro potenziale produttivo di cui 28 non arrivano al 20%, 14 sono sotto il 5% e 7 sembra non abbiano mai prodotto una sola bottiglia. Con questa situazione in casa appare quindi difficile affrontare concorrenti più strutturati e competitivi.

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