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Il Sole 24 Ore

Un nero d’Avola per il no-global ... Ormai il dilemma al ristorante, in enoteca e al supermercato non è più fra rosso e bianco, oppure fra un’etichetta made in Italy e una made in Francia, ma fra un vino ottenuto da un vitigno autoctono o tradizionale e un vino apolide o da vitigno internazionale.
Chi lo avrebbe mai immaginato non meno di qualche anno fa che quei vitigni dai tanti nomi bizzarri (timorasso, pignolo, bombino nero di Troia, negroamaro, tazzelenghe, passerina, nascetta, grillo, lacrima di Morro d’Alba, ruchè, rossese, pelaverga) ricordati come il tempo che fu dai nomi e dai bisnonni quei bianchi e rossi simbolo di un campanilismo localistico abbandonato, sarebbero ritornati alla ribalta.
Forse in pochi ritenevano che, dalla feroce dittatura internazionale del cabernet sauvignon, del merlot, dello chardonnay, del sauvignon blanc, si sarebbero salvate le minoranze vinicole. Certo il mercato globale è sempre più dominato dai vini di vitigno apolide che arrivano a frotte dai mercati del nuovo mondo (Cile, Argentina, California, Australia) ma il localismi “vinicoli” made in Italy stanno rifiorendo; le minoranze si stanno rafforzando proprio in quanto tali di fronte all’arroganza dei sapori e profumi tutti uguali. Non diverranno mai “cultura dominante” i vari vini ottenuti dai micro territori del Bel Paese, ma alcuni fra loro, il nero d’Avola siciliano, il negroamaro pugliese, il Montepulciano d’Abruzzo cominciano a far capolino perfino nel mercato globale, quasi ad affiancarsi ai fratelli maggiori già ammessi nel ghota internazionale, quali il sangiovese (Brunello di Montalcino) e il nebbiolo (Barolo, Barbaresco eccetera). Chissà se nei prossimi decenni altri, fra i circa 500 vitigni autoctoni o storici dello straordinario patrimonio italiano, riusciranno a far parte delle classifiche di Wine Spectator o di Mister Parker. Probabilmente questa è una domanda pleonastica perché l’omologazione del gusto “vinicolo” è talmente avanzata che una retromarcia necessita di tanti decenni. Dunque i vitigni storici saranno un “fatto” nostrano, anzi lo sono già perché nero d’Avola, vermentino, aglianico sono “termini” che fatto parte del vocabolario giovanile del vino, soprattutto femminile, oggi trainer del consumo nei locali a cominciare dai wine bar.
Perché i vitigni storici hanno successo? Innanzitutto costituiscono una reazione, un baluardo contro la globalizzazione: di questa realtà in molti, in tanti sono coscienti. Si può essere “no global” anche scegliendo a tavola un rosso o un bianco non omologato! Ma non solo, la rinascita dei vini “minori” (opposto ad apolidi) è un segno di valorizzazione della cultura materiale dei “diversi” territori. Esiste infatti uno stretto rapporto storico con il territorio degli autoctoni che posiziona questi come un vero e proprio patrimonio culturale italiano. Non è consentito illudersi perché così come per i giacimenti che non possono diventare mercato ma restano “nicchia” anche per molti, tanti vini, ottenuti da vitigni tradizionali, sia necessario mettere a punto delle “riserve” nei territori di produzione per far sì che quei vini possano trasformarsi in richiamo per viaggiatori e appassionati. Solo così si genera valore nel territorio di produzione. Viene da chiedersi anche un cabernet o un merlot da tanti anni coltivato in un territorio italiano (Collio per esempio o Maremma) possa essere considerato apolide oppure autoctono. Che dire, il paragone corre a quei cittadini stranieri, da anni residenti e occupati in Italia, che chiedono la cittadinanza. Se non erro viene loro concessa dopo anni. E allora perché non dovrebbe essere lo stesso per un vino che presenta uguali requisiti? Anche questi rossi e bianchi sono in realtà minoranze perché nel tempo imparano il dialetto locale che permette loro di dialogare con il territorio, ma difficile da comprendere nel mare magnum della globalizzazione. Sine qua non. (arretrato de Il Sole 24 Ore del 29 dicembre 2005)

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