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Il Sole 24 Ore

Il vino di qualità sfonda a Mosca. Dopo la caduta degli anni Novanta al made in Italy punta sull'alto di gamma ... Sul mercato russo è decisamente un buon momento per la tavola made in Italy. Da un lato il trend positivo dell’economia locale che continua a crescere più velocemente di quella di molti altri Paesi europei e, dall’altro, l’immagine trainante del buongusto italiano favoriscono la domanda di prodotti alimentari italiani che riempiono gli scaffali di grandi magazzini, delicatesserie, winebar e negozi di tendenza della capitale e delle altre grandi città russe.

Ora, per quanto il peso di pasta, prosciutti, latticini e formaggi grana sia ancora marginale rispetto ai volumi e ai valori di altri prodotti (macchinari, mobili, farmaceutici, tecnologie varie occupano buona parte delle esportazioni dell’ultimo anno, pari a 5,5 miliardi di euro con un incremento del 41%) è un fatto che nelle scelte dei consumi di moscoviti e sanpietroburghesi l’italian way of life sono ai vertici della graduatoria. Con vini e spumanti ai primi posti.
«Non dovete sorprendervi se nella classifica dei maggiori Paesi fornitori della Russia il vino italiano incide solo per il 7,5% dell’import totale, alle spalle di Spagna, Georgia, Bulgaria, Moldavia e la stessa Francia; quel che ora conta è la grande potenzialità dei vostri prodotti di crescere sul nostro mercato», dice Anatoly Korneev, giovane presidente della Simple Import, una delle principali società di importazione e distributore di bevande alcoliche con più di 60 marche italiane tra le quali spiccano Ca’ del Bosco, Lungarotti, Zenato. «Oltretutto - aggiunge Korneev - è bene ricordare che la presenza continua delle più importanti case italiane in Russia è piuttosto recente, rispetto alle maison francesi».

In effetti è solo dalla seconda metà degli anni 90 che l’Italia ha cominciato a praticare in questo grande Paese una politica enologica fatta di offerte di qualità. «Prima a prevalere era il prodotto anonimo», osserva il direttore dell’ufficio Ice di Mosca, Fabrizio Camastra. Che ricorda come il massimo storico delle esportazioni italiane risalga al 1995 con oltre 500mila ettolitri, mentre oggi lo stesso totale è di appena un decimo. Con un particolare importante. E cioè che allora si trattava di vini anonimi collocati al prezzo più basso del mercato, mentre adesso i prodotti sono firmati dalle grandi marche italiane e con il prezzo medio (3,85 euro) che è tra i più alti della categoria.

Questa apertura al made in Italy non deve però far dimenticare i problemi. E cioè che il mercato russo, come tutti quelli in cui è in atto un processo di crescita economica tumultuosa, presta il fianco a operatori che sono tutt’altro che trasparenti. E dunque è opportuno che anche chi viene in Russia a vendere il vino faccia attenzione nella scelta del partner importatore. La questione non è marginale, al punto da essere oggetto di forti discussioni tra gli operatori intervenuti al recente VinItaly di Mosca e San Pietroburgo organizzato da VeronaFiere.

«La scelta dell’importatore è sempre molto delicata e, anche in Russia, va fatta con la massima attenzione per evitare di trovarsi a che fare con personaggi poco raccomandabili», avverte il vignaiolo Ambrogio Folonari. Un pericolo che per Dimitri Pinski della Dp-Trade (distributore di Gaja, Jermann, Lageder, Isole e Olena, Masciarelli) «può essere in parte evitato affidandosi a operatori conosciuti». Oppure, suggerisce il siciliano Lucio Tasca d’Almerita che in Russia vanta una lunga esperienza di vendita, «chiedendo informazioni alle istituzioni ufficiali del Paese (banche, associazione degli imprenditori) e al nostro Ice».

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