Ricavi in frenata e utili a picco ... Non è questione di qualità, ma di dimensione. Piaccia o no, il fattore prevalente nel modello d’impresa che sempre più va ad imporsi nel mondo dell’enologia non è la qualità, che è una condizione essenziale del produrre e quindi non si discute nemmeno. Il fattore discriminante emergente è invece la dimensione dell’azienda, e la sua capacità di interpretare e adeguarsi ai bisogni del consumatore. Onde per cui nel Belpaese di Enotria fare impresa restando nani sta diventando un handicap davvero molto serio. È un fatto che negli ultimi vent’anni, mentre il processo qualitativo ha fatto incredibili passi avanti, niente è accaduto sotto il profilo strutturale: la superficie media delle aziende viticole è praticamente rimasta la stessa (da 0,8 a 0,9 ettari) e solo cinque delle duemila "vinicole" registrate come tali dispongono di ricavi che superano i 100 milioni di fatturato. La conseguenza è carenza di mezzi, efficienza gestionale scarsa, massa critica ben lungi dall’equilibrio, competitività al lumicino e margini operativi che affliggono buona parte delle imprese in attività. Una condizione tutt’altro che ottimale che, alla lunga, rischia di infilare l’intero comparto vitivinicolo in un cul-de-sac da cui sarà molto più complicato districarsi. A lanciare l’allarme contro questo pericolo è l’Osservatorio finanziario sulle società vinicole del Dipartimento di Scienze aziendali dell’Università di Firenze.
Che, dopo per avere monitorato per cinque anni consecutivi la gestione di 160 imprese (suddivise per fatturato in quattro sezioni: "D" da 2 a 7 milioni di euro, "C" da 7 a 13, "B" da 13 a 30 e "A" sopra i 30 milioni), è giunta alla conclusione che "piccolo" per quanto bello possa essere nel mondo del vino (e non solo), è diventato sinonimo di problema. Sotto molti punti di vista: quello dei ricavi, con il campione analizzato che nel periodo in esame accusa una caduta verticale della crescita dal 7,9% al 2,9%; della gestione, con il valore aggiunto dimezzato dal 9% al 4,7%; quindi dei risultati operativo e netto, passati dal segno più del 2001 (rispettivamente 4,6 e 11,7) a quello negativo del 2004 (-3,8% e -12,7%). La questione non è nuova e non poche imprese - da Antinori a Zonin, da Berlucchi a Tasca tra i privati, e da Cavit al Gruppo Italiano Vini passando per Tollo e Soave, tra le cooperative - hanno provveduto a interrogarsi sul da farsi ancora prima che il fenomeno della globalizzazione imponesse il proprio ritmo. Ora arriva la seconda ondata, con diversi bei nomi del vino made in Italy che avvertono la stessa necessità, magari andando a reperire i necessari mezzi finanziari in borsa o aprendo le porte ai capitali internazionali.
Questa è la logica che sta dietro talune recenti operazioni come quella della Marchesi de’ Frescobaldi che, dopo avere splittato alcuni suoi prestigiosi asset (Ornellaia, San Giocondo e Luce della Vite: si veda «Il Sole-24 Ore» del 12 maggio) nella società Tenute di Toscana e in cambio di una forte iniezione di capitali, di fatto è andato a nozze con il gruppo dei superalcolici russi Spi-Moskovskaya. Stessa logica per la Ruffino di Luigi e Paolo Folonari, che hanno ceduto alle lusinghe del colosso americano Constellation, primo gruppo vinicolo al mondo divenuto anche titolare di una quota consistente della vinicola toscana. Nell’uno e nell’altro caso non si fa certo fatica a leggere i differenti pesi di forza che contraddistinguono i protagonisti in campo; tuttavia non si può non convenire sul fatto che queste siano state scelte quasi obbligate e, probabilmente, anche le più stabili.
Diversamente, l’alternativa sarebbe stata quella dei fondi di private equity a cui va riconosciuto la capacità di essere portatori di energie fresche, che però hanno l’obbligo di passare in tempi brevi all’incasso, lasciando a volte l’azienda con gli stessi problemi di liquidità di prima.
Autore: Nicola Dante Basile
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