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Il Sole 24 Ore

Gusto e varietà dell’offerta: un vantaggio competitivo ... Il vino italiano sembra avere nell’immediato più opportunità di crescita rispetto a Paesi produttori affini come parte della Spagna e la Francia che, per produzione ( milioni di ettolitri, poco più dell’Italia) e fatturato (circa 14 miliardi di euro, contro 9), è ancora il polo numero uno. Queste opportunità hanno a che vedere con la buona immagine della cucina made in Italy, il turismo, la storia e l’arte. E per l’ampia scelta di vini che l’offerta tricolore è in grado di dare al consumatore domestico e internazionale. Lo dicono gli analisti della banca olandese RaboBank autori del rapporto «Cambiamento competitivo nell’industria vinicola mondiale», di cui «Il Sole-24 Ore» è in grado di darne anticipazione. Un vantaggi competitivo che per il responsabile del rapporto, l’economista Arend Heijbroek, può essere vissuto come fattore di successo, che però non costituisce una carta definitiva anche per il futuro.
Tali opportunità e performance alla lunga potrebbero non bastare se nel Paese dovesse persistere la frammentazione strutturale delle imprese viticole, stimate in 606mila per 795mila ettari di vigneti disponibili, di cui 7mila hanno 10 ettari e appena qualche centinaio più di 50 ettari. Una situazione che colloca la Penisola all’ultimo gradino del rapporto superfici-produttori (1,25 ettari per vignaiolo, rispetto a 5,4 ettari della Spagna, 7,4 della Francia, 20,6 dell’Australia, 22,7 del Sud Africa per arrivare a 25,5 della Nuova Zelanda e fino al top di 40,2 ettari degli Stati Uniti) e spinge il costo lavoro al livello più alto di 400 ore-per-ettaro: più o meno come la Francia, quasi un terzo più della Spagna e all’incirca doppio rispetto ai nuovi Paesi produttori). Non è tutto. Accanto all’affollamento delle aziende viticole, non meno corposa è la rete vinicola, che conta 4mila vinerie e 30mila imbottigliatori (poco meno delle 39mila della Francia, dove però prevale la politica degli chateau, ma molto più delle 2mila aziende Usa) portatori di almeno 5 etichette in media, per un totale di 150mila referenze.
Per l’Italia questa ampia articolazione, certo non facile da gestire, potrebbe reggere. Ma non all’infinito. Ne consegue che è molto meglio interrogarsi ora sul da farsi, piuttosto che attendere che siano altri a porre delle condizioni. Dunque è meglio trattare, cominciando da quello della politica, con la riforma del mercato vinicolo europeo che rumoreggia a Bruxelles ma che è ancora tutta da scrivere. Un altro tavolo attiene alla riorganizzazione strutturale delle aziende o dei gruppi vitivinicoli, peraltro già avviata. Un tema a cui gli analisti del rapporto RaboBank riconoscono grande valenza per lo sviluppo del business e per l’affermazione di marchi attivi nel segmento dei vini premium o di alta qualità. Ma puntare a iniziative di crescita e successo vuole anche dire intervenire su quello che è il vero anello debole della viticoltura italiana. Vale a dire l’enorme quantità di prodotti anonimi (40% del totale) che sfuggono a controlli e interventi cui, in qualche modo, sono sottoposti i vini che si avvalgono di denominazioni regionali Igt (27%) e, ancora di più, Doc e Docg (33%).

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