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Il Sole 24 Ore

Per favore, diciamo vino al vino ... Il curioso vezzo dei enologi di descrivere sapori e caratteristiche usando paragoni strani: «sa di pesca, di cioccolato, di asfalto»... Il vino e la degustazione sorto diventati argomenti che va uno oltre gli addetti ai lavori, e intrigano sempre più gli intellettuali. Chi l’avrebbe mai pensato un paio di anni fa, quando il cibo e il vino venivano considerati come argomenti da bottega o da osteria. È davvero sorprendente scovare nella «New english review» (febbraio 2007) un articolo che affronta il linguaggio del vino, tocca i dogmi della degustazione e finisce scomodando perfino un filosofo come Wittgenstein. Colin Brown, autore dell’articolo, sostiene che il vino viene sempre descritto come un qualcos’altro, ma non si definisce mai che cosa esso sia. Gli esempi portati dallo scrittore sono diversi: quando si assaggia uno chardonnay immediatamente si fa il riferimento alla pesca, nel caso del merlot lo si paragona al cioccolato. Ma perché, allora, scegliere quel vino e non subito una tavoletta di cioccolato, si domanda il nostro Brown?
E ancora: «Non diciamo mai quale gusto ha quel vino, ma a quale sapore assomiglia». Brown sostiene che ci si comporta come quando si va alla ricerca di una parola sul vocabolario, di cui la spiegazione è rimandata a un altro termine ancora. Insomma, «tutto è come qualcos’altro». E non a caso, un grande enologo come Emyle Peynaud sosteneva che il paradosso della degustazione è che essa tende a essere un metodo oggettivo, impiegando mezzi soggettivi: il vino è l’oggetto, l’assaggiatore il soggetto. Sempre più nelle presentazioni dei vini si ascoltano descrizioni spesso poetiche, magari il ricordo dell’odore del pelo di una volpe in una notte di pioggia o, come riporta Brown, il sapore dell’inchiostro emesso da una seppia. Sensazioni soggettive che non trasmettono all’altro che cosa sia quel vino, ma creano però la curiosità di trovare quel gusto o subito dopo un altro da contrapporre. Una corsa a tirar fuori sapori, profumi e metafore, quasi fosse questo il vero piacere di un bicchiere di un rosso odi un bianco. Nel tempo il linguaggio del vino si è sicuramente appiattito, chiuso in se stesso, limitato nel glossario, poco aperto ai termini giovanili, ai neologismi, alle metafore del gruppo. È ormai quasi meccanico far conciliare ad alcuni vini aggettivi o sostantivi (cabernet = erbaceo, chianti = viola, eccetera) che limitano però il piacere di colui che si accinge a degustare per la prima volta. Siamo in presenza di un linguaggio corporativo, alimentato pure dalle contro etichette delle bottiglie, uguali a se stesse nonostante quegli stessi vini siano completamente cambiati.
È davvero interessante confrontare le espressioni di un giovane, appena divenuto “bevitore” di un calice di rosso odi bianco, con il linguaggio ufficiale del mondo del vino. Sono due mondi, due modi di descrivere molto lontani, quasi due parallele che non s’incontrano mai. Sebbene possano arrivare però alla stessa stazione. Mi è capitato di assistere alla degustazione di un ragazzo che non aveva mai assaggiato un barolo, ebbene la sua risposta è stata: «Mi ricorda l’odore dell’asfalto di una strada in agosto con un gran caldo». Altro non è che il goudron, termine molto usato proprio per questo vino piemontese. La provocazione dell’articolo di Brown offre da un lato spunti di riflessione, dall’altro mostra alcune carenze, tipiche di un intellettuale di fronte alla degustazione. Infatti, si passa immediatamente a descrivere «sa di...», «il sapore mi ricorda.. », cioè a dire la soggettività, il ricorso alla memoria sensoriale personale, ma esiste una prima fase gustativa che può essere oggettiva. Cioè a dire le sensazioni acide, astringenti, salate, amare, dolci. Su questi aspetti non si può barare con la fantasia o con il linguaggio: sono indiscutibili. Forse Brown ha ragione in un punto: la verità è sempre dentro al vino e non nel linguaggio. Sine qua non.

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