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Il Sole 24 Ore

Etichette da museo sul Brunello di Sandro Chia ... Il vino «è molto più della materia che ci è permesso di vedere: è trascendenza, immaginazione, religione, paganesimo, poesia. Il vino è la vita stessa nella sua più elementare e piena beltà. Il vino è cultura, è arte». Parola del pittore Sandro Chia, che di mestiere non fa il vignaiolo, ma dal vino è attratto a tal punto da mettere radici a Castello di Romitorio, uno degli angoli più struggenti della Val d’Arbia con i filari di Sangiovese grosso che salgono e scompaiono dietro le colline degradanti verso Grosseto, mentre a est lo sperone di Montalcino prorompe sospeso su un manto uniforme di nubi bianche.
Qui l’artista della Transavanguardia si è avvicinato al mondo contadino, finendo catturato da una cultura vignaiola «che all’inizio in qualche modo ho subito», salvo poi scoprire quanto di più spontaneo e libero esista nella natura delle cose e farne «una filosofia di vita continuamente tesa alla ricerca del meglio. Sicché coltivare le viti e produrre il vino non è come fare una semplice bevanda, va oltre e ti permette di creare qualcos’altro di meglio che non hai e immagini di volere, Per questo penso che produrre vino sia un’arte e l’agronomo e l’enologo sono artisti che creano».
Sandro Chia, 61 anni, autore di opere esposte nei più prestigiosi musei del mondo, vita scapestrata da «anarchico conservatore», quattro figli da tre mogli (l’ultima, Marella Caracciolo junior), a Montalcino ci è arrivato per caso una ventina di anni fa. Oggi le 200mila bottiglie che produce vengono per buona parte esportate e sono anche richieste da collezionisti, per via delle etichette personalizzate dall’artista-vignaiolo. «Ero a New York dove stavo lavorando a un grande affresco quando - racconta Chia - mi telefona il barone Giorgio Franchetti, un mecenate d’altri tempi come non se ne vedono più in giro, uomo di grande spessore culturale. Mi chiede se ero interessato a visitare quel che restava di un borgo fortificato medievale, il Castello di Romitorio a Montalcino, usato come ricovero di pastori e pecore ma che, a suo parere, presentava elementi intriganti dal punto di vista paesaggistico e artistico. Tutt’intorno al castello una tenuta di 250 ettari di prati e boschi e niente altro. La vecchia proprietà non sapeva cosa farsene e, da trent’anni, cercava un acquirente. Arrivai a Montalcino senza grandi progetti. Ma fu amore a prima vista», senza che il vino c’entrasse qualcosa.
«All’inizio la qualità delle nostre produzioni - ricorda Chia – erano ben lontane dai livelli di oggi e le cantine erano piene di prodotto che non si vendeva. Il Brunello stesso non era ancora quel fenomeno di vino che oggi tutto il mondo conosce. E se questo fenomeno è esploso, buona parte del merito è firmato dagli americani che hanno creduto nella viticoltura di qualità del made in Italy. Io stesso, quando ho deciso di piantare le prime vigne mi sono ispirato ai modelli di coltivazione assai più innovativi, efficienti e naturali in uso in America. Allora in Italia, a Montalcino, i filari delle vigne erano retti da pali in cemento; le rese uva-ettaro erano molto alte e la qualità ne risentiva. Dall’America ho importato l’uso dei pali di legno assai più ecologici degli altri. Certo non ero il solo e non sono stato il primo. Ma è una fortuna se oggi questa cultura della qualità ha conquistato tutti i vignaioli d’Italia».

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