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Il Sole 24 Ore

La forza della tradizione ... Per la prima volta le esportazioni sfondano il tetto dei tre miliardi di euro. Il successo dell’enologia italiana poggia su un patrimonio viticolo di prodotti territoriali unici e irripetibili... I vignaioli del Monferrato sono preoccupati. Da qualche tempo l’amministrazione regionale discute animatamente se elevare taluni vini Barbera al rango dei pluriclassificati Barolo e Barbaresco. Nel dibattito però non si fa menzione di estendere la denominazione “garantita” (Docg) anche alla Barbera Doc dei Monferrato, il cui nome da queste parti è rigorosamente al femminile. Questa esclusione ovviamente ha preso in contropiede i produttori monferrini. I quali oltre a ritenerla lesiva dei propri interessi, la considerano discriminante rispetto alle comunità vicine destinatarie, invece, del bonus progettuale.
Il dibattito innescato nella comunità locale ha finito per fare arenare l’intero progetto regionale, lasciando che sia Torino a escogitare una soluzione che vada bene agli uni e accontenti gli altri. Niente di nuovo sotto il cielo. Nell’Italia dei mille campanili e delle trecento e passa Doc, molte delle quali sconosciute ai più, non è la prima volta che si assista a un copione di tal fatta. E certo non sarà l’ultima. Ma tant’è, una denominazione non si nega a nessuno. Per cui se la territorialità è un fattore di distinzione e aiuta a innescare un processo mediatico che favorisce il valore mercantile del prodotto, perchè mai non promulgare una nuova “controllata e garantita”? Ma la domanda che ci si deve porre è perchè una comunità di bravi vignaioli, capace di fare prodotti di assoluto valore qualitativo s’incaponisca nel reclamare burocraticamente e in tempi paralleli il medesimo riconoscimento preteso da altri? Come minimo il rischio cui si va incontro è quello di stoppare le iniziative, come poi s’è verificato.
Ma peggio ancora c’è il rischio che, giocando di rimessa, si finisca per restare degli eterni secondi. Quando invece, grazie alle peculiarità territoriali che ciascuno ha a disposizione in modo esclusivo, vi è l’opportunità per tutti di essere numeri uno. Lo spunto è piemontese, ma è tutta la Penisola che può fornire vini esclusivi. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Ciò detto è provato andando a sindacare nel paniere delle esportazioni vinicole che continuano a fare incetta di consensi un po’ ovunque nel mondo. E questo, proprio grazie alla diversificata offerta regionalizzata o territoriale dell’enologia made in Italy. È un fatto che il 2006 per il vino dello Stivale si è appena chiuso con uno strabiliante consuntivo dell’export oltre 18 milioni di ettolitri. In valore si è andati per la prima volta oltre il tetto psicologico dei 3 miliardi di euro (3,2 miliardi).
Due dati che corrispondono a una crescita, rispettivamente, dell’8 e del 4,5 per cento sull’anno prima e che, per dirla tutta, non sono accostabili con altri prodotti della tavola tricolore. La statistica però, ancorché non definitiva, dice altre cose. Per esempio che per trovare qualcosa di confrontabile con gli ettolitri esportati bisogna fare non uno ma venticinque passi indietro. Andare cioè ai primi anni Ottanta, quando il vino che il Belpaese mandava all’estero era per i tre quarti venduto sfuso, anonimo e dal prezzo medio molto contenuto. Una politica che ha penalizzato per lungo tempo l’immagine stessa di Enotria. Oggi quella situazione è solo un brutto ricordo fortunatamente non comparabile con quanto nel Paese si è fatto e si sta facendo per la cultura della qualità. Una cultura che ha coinvolto i vignaioli della Valpolicella piuttosto che della Valle d’Itria, i produttori ardimentosi della Valtellina e dell’estremo Collio passando per la Franciacorta il Conero, l’Irpinia e le falde dell’Etna.
Insomma, vini provenienti da siti regionali provinciali comunali zonali e giù fino ai selezionati cru delle colline Astigiane o della pianura Bolgherese: tutti espressione di processi produttivi severi e innovativi frutti di particelle infinitesimali e pur tuttavia capaci di risvegliare desideri sensoriali unici e collettivi, nonché esaltare immagini accattivanti in un mercato necessariamente globale. Ecco il segreto di questi vini del territorio dai nomi a volte impronunciabili per l’americano lo svedese il russo o giapponese, il cui appeal olfattivo cattura sempre più consumatori di ogni ceto e colore attenti al portafoglio ma che non vogliono rinunciare al concetto del bello e del particolare. Particolari che ciascuna azienda, gruppo o imprenditore interpreta con un proprio schema che non necessariamente è estendibile ad altri.
Non è estendibile, per esempio, la politica di Zonin alle scelte di Frescobaldi o, ancora, a quelle dei Fratelli Muratori o della cooperativa Tollo. Il gruppo vicentino (110 milioni di euro di fatturato) non fa mistero della sua logica di marchio globale e in questo senso lancia “primo amore”, la nuova linea volta a catalizzare l’attenzione del consumatore mondiale.
Frescobaldi (67 milioni) invece esalta i prodotti cult come “Ornellaia” e “Masseto” che tutti i produttori del mondo vorrebbero avere nel proprio portafoglio; i Fratelli Muratori (12 milioni) con molto coraggio “inventano” la filosofia dell’arcipelago, creando prodotti distinti per luogo di origine partendo dalla Franciacorta;
Tollo (12 milioni) da buona cooperativa radicata nel territorio investe anch’essa sulla globalizzazione della gestione esaltando le peculiarità tipiche del Montepulciano d’Abruzzo e di altri vini locali: prodotti che, come dichiara il direttore generale Giancarlo Di Ruscio, hanno determinato una crescita del 15% nel 2006 delle nostre esportazioni.
Ognuno con un approccio di mercato che più gli è congeniale, ma con ciascuno dei risultati che testimonia la creazione di valore per l’azienda e per il settore. Segno che la globalizzazione, necessaria sotto il profilo della gestione, non esclude la distinzione produttiva. Anzi, a ben vedere è proprio questa la variabile che fa l’andatura e dà corpo al patrimonio viticolo ed enologico italiano. Di oggi e del futuro prossimo.

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