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Il Sole 24 Ore

Le Pmi del vino prime per redditività. Più export e ricavi ... Made in Italy. Rapporto Mediobanca sul settore. Il fatturato 2006 in crescita del 5,1%. Utili ai massimi da cinque anni... Sembra una contraddizione, ma quello che emerge dall’analisi dei conti dedicati al mondo del vino è incontrovertibile: in Italia più le aziende sono piccole e più cresce il loro tasso di rendimento. Nel senso che la percentuale del valore aggiuntò sul fatturato diminuisce a mano a mano che aumenta la consistenza patrimoniale dell’azienda stessa. E questo in un contesto generalmente positivo, con il fatturato delle imprese cresciuto mediamente del 5,1% nel 2006 e gli utili netti che confermano il valore più elevato degli ultimi cinque esercizi già segnato nel 2005, vale a dire il 3,7% sul fatturato. A dirlo sono i risultati dell’annuale focus che Mediobanca dedica al vino.
Dallo studio della banca d’affari di Piazzetta Cuccia - quest’anno il monitoraggio ha interessato 8 aziende con più di 25 milioni di fatturato, pari al 36% del valore totale della produzione di 9,7 miliardi di euro e al 53% dell’export di 3,2 miliardi - emerge infatti per le imprese con capitale fino a 13 milioni di euro un roi (ritorno sul capitale investito) che sfiora l’11 per cento. Lo stesso scende all’8,2% per le aziende intermedie e cala ulteriormente al 7,7% per quelle più capitalizzate e comunque oltre i 50 milioni di euro. Insomma, per quanti producono vino vale l’annoso e noto ritornello del “piccolo è bello”. Ma è proprio e sempre così? Non proprio e non sempre. Questo principio sembra calzare bene per i vignaioli della Penisola - che pure non manca di avere imprese con ricavi oltre i 100 milioni di euro: tra i primi cinque gruppi vi sono tre cooperative (Caviro con 282 milioni di euro, Giv con 266, Cavit con 173) e due private (Giordano con 136 milioni e Antinori con 128) - ma non si può dire la stessa cosa se il confronto avviene su scala internazionale: alla voce roi il settore nell’insieme segna una performance superiore all’11 per cento. Se poi nel computo si inseriscono le performance dei 36 gruppi enologici (nessun italiano) quotati nelle diverse borse mondiali il quadro assume contorni più definiti.
E questo indipendentemente dall’alea borsistica, risultata positiva nell’ultimo quinquennio per buona parte dei titoli. Che, anche quando vengono depurati della dinamica borsistica, evidenziano variazioni positive del 114% per le quotate in Usa, seguite da Canada (165,7%), Francia (101,5%,) e Cina. Per contro arretrano Australia (-35,6), Cile (-30,4) e Spagna (-6,7). Detto questo, resta il fatto che la struttura patrimoniale delle imprese vinicole italiane, quand’anche frammentata, presenta non solo un buon rapporto capitale netto/debiti (al 91%), ma vede il margine operativo netto crescere del 10,6%, frutto della diminuzione dei costi digestione e di un aumento contenuto delle vendite.
Aumento che non è unica conseguenza del buon andamento dell’export, ma anche di un risveglio della domanda interna. Può sorprendere, ma è un fatto che i dati ancora parziali (81% del campione Mediobanca) del 2006 evidenziano una ripresa dei ricavi valutata mediamente nella misura del 5,1% (+0,3% nel 2005), laddove il mercato interno risponde con un più 3,3% e l’export sale a17,3 percento. Queste indicazioni vengono peraltro confermate dai consuntivi aggregati che Istat e Ice si apprestano a diffondere in modo analitico in occasione del Vinitaly che verrà inaugurato giovedì prossimo a Verona. Ebbene, la traccia emergente è che le esportazioni italiane nel 2006 hanno superato la quota fatidica dei 18 milioni di ettolitri (+15% circa sul 2005) toccata nella prima parte degli anni ‘80. Dopo di allora l’export è rimasto con un continuo sali e scendi sempre sotto quel tetto. Che ora, appunto, è stato riguadagnato grazie alla variegata e per molti versi esclusiva offerta di vini made in Italy. Il tutto per un controvalore che per la prima volta è andato oltre i 3 miliardi di euro (per la precisione 3,19 miliardi) e dunque con un aumento consistente. Il che non accadeva da qualche anno.

Esportazioni, un businnes da 3,2 miliardi
Il vino in Italia
Valori alla produzione in milioni di euro - Dati 206
Produzione - 9.700
Export - 3.200
Import - 270
Consumo - 7.000

Fatturato delle maggiori imprese (dati 2006 in milioni di euro)
Caviro - 282
Giv - 266
Cavit -173
F.Giordano - 136
Antinori - 129

“Il rosso che brucia le tappe”...
Quando si dice “bruciare le tappe”. Sette anni fa l’azienda esisteva solo nella testa dei titolari, un gruppo di giovani emigrati da giovani al Nord, dove hanno fatto fortuna nel business della lavorazione delle acque; oggi i vini della Tenuta Coppadoro, fondata appunto nel 2001 e presieduto da Ottavio Pisante, sono venduti in trenta Paesi. Il fatto più sorprendente e al tempo stesso intrigante è la capacità della gestione di portare all’attenzione dei consumatori vini di notevole perfezione e qualità. Un livello tale che ha convinto i “nasi” del Gambero Rosso ad assegnargli per due anni successivi il massimo dei punteggi. Una prima volta nel 2005 per il Radicosa 2003, rosso potente ottenuto da uve di Montepulciano lavorate in purezza (100%) e fermentazione in caratelli francesi; una seconda volta quest’anno con il Cotinone 2005, ancora un rosso frutto di una cuvée di Aglianico, Montepulciano e Cabernet Sauvignon combinate in parti uguali. Centosettanta ettari situati in posizione angolare tra l’ultimo lembo del Tavoliere e le prime colline del Gargano a pochi chilometri dal mare, Coppadoro condensa l’enunciato più evidente della nuova vitivinicoltura pugliese. Un enunciato peraltro affidato a un manager palermitano di provata capacità, Luigi Albano, che non solo è riuscito a inserire l’azienda nel contesto territoriale in cui opera ma ne ha fatto un marchio export oriented: delle 430mila bottiglie che escono dalla tenuta oggi (non tutti i vigneti sono in produzione) il 70% viene infatti venduto oltre i confini nazionali.

“Tutto venduto già in botte”...
Da un lato c’è il comune di Barolo, dall’altro quello di La Morra con la sua terrazza che domina uno scenario naturale di incomparabile bellezza: se la giornata è nitida si vede una larga fetta dell’area di Langa riservata alla produzione della denominazione di origine controlla e garantita Barolo. Ovvero il grande rosso piemontese che da diverse generazioni in tanti definiscono “il vino dei re” o “il re dei vini”, con buona pace dei vignerons che dicono la stessa cosa dello Champagne. A metà strada tra i due comuni, su un cocuzzolo a 400 metri di altitudine c’è la frazione di Vergne, o meglio c’è il gruppo di case dell’Azienda agricola Vajra, con la cantina dalle pareti in cristallo disegnata da Costantino Ruggieri, un frate-artista che vive il suo tempo nel convento di Canepanova in provincia di Pavia. Tutt’intorno i suoi preziosi vigneti. O meglio, solo una parte dei 40 ettari di cui Vajra dispone in tutto. Tale frazionamento - spiega Aldo Vajra, che con la moglie Milena ha cominciato l’attività di barolista nel 1972 - si spiega con la grandine dell’1986 che distrusse tutta la nostra uva, lasciandoci senza prodotto. Così i nuovi investimenti li abbiamo fatti in più aree l’una distante dall’altra. Appena 250mila bottiglie tra Barolo, Dolcetto, Barbera e Freisa, i vini Vajra hanno una tale bontà che finiscono per essere venduti a distributori italiani (per il 30%) e importatori esteri (per il restante 70%) quando ancora sono in botte. La politica dei listini praticata da Vajra è a detta degli osservatori assai equilibrata in termini di rapporto prezzo-qualità, con valori che oscillano da 5 euro per un dolcetto a 22,5 per un Barolo.

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