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Il Sole 24 Ore

A caccia d’originalità ... Sembra di vivere in un Barnum, un grande circo del cibo, dove tutti possono dar spettacolo: nani, ballerini, domatori e clown. Ogni giorno succede tutto e il contrario di tutto a cominciare dalla ricerca scientifica che annuncia un giorno che la carne rossa è pericolosa per la salute e il giorno dopo, essenziale per una corretta alimentazione.
Fast&slow. Tutti raccontano di pranzare e cenare con lentezza, ricercando i prodotti del territorio, poi scopri che c’è il boom dei piatti pronti e dei locali di fast food. Difficile trovare una chiave di lettura, chiara, sui comportamenti alimentari.
Davvero lampante è invece la guerriglia sempre più cruenta tra “marca” e “origine”. Il riferimento corre, ovviamente, ai prodotti alimentari, vino compreso. Uno scontro tra due mondi (il Mediterraneo da un lato, dall’altro il Nord Europa, il Nord America, l’Australia), tra due economie, che si ripercuote sulla nostra alimentazione.
E chiaro che chi non possiede storia, cultura e tradizione gastronomica punta sulla industrializzazione dei processi produttivi, sull’innovazione, sull’imitazione e pure sulla contraffazione dei prodotti.
Lì l’origine non ha importanza perché il garante di prodotti senza chiesa né bandiera è il marchio dell’azienda, costruito dalla comunicazione (pubblicità, promozione eccetera). Il plus è offerto solitamente dalla sicurezza.
Ebbene la “marca” sta diventando sempre più importante. Nei Paesi dove la denominazione d’origine esalta la qualità, una minoranza (non silenziosa, ma vociante) però chiede sempre di più l’identificazione della filiera del prodotto, sia esso salume o formaggio o carne eccetera. Finalmente è arrivato il provvedimento sull’obbligo di indicare l’origine in etichetta per l’olio d’oliva. Il consumatore non cerca più un olio d’oliva tout court, ma l’extra vergine toscano, ligure, siciliano, pugliese, molisano o umbro eccetera, addirittura distinguendo all’interno della Toscana l’olio del Chianti, rispetto all’olio della Maremma, o per la Sicilia quello del Belice o del Trapanese.
Lo stesso fenomeno avviene con i salumi, dove ormai non si chiede più un salame, un prosciutto, un lardo, un culatello bensì un prodotto ottenuto da maiali neri dei Nebrodi o da cinta senese o da casertana o da mora romagnola. In questi casi addirittura l’origine viene esaltata dalla materia prima con la quale si ottiene il prodotto finale, così come ricerca da tempo un piccolo produttore di salumi, Claudio Ronchei di Sala Baganza in grado di far assaggiare 4-5 salami con maiali di razze autoctone diverse.
Così succede anche per le scelte di carne dove le razze sono di nuovo protagoniste: la piemontese, la chianina, la podolica eccetera, hanno cominciato a essere riconosciute e richieste. Perfino il pesce comincia ad avere una scala di valori: il tonno di Carloforte, i gamberi di San Remo o di Mazara del Vallo, le aragoste di Bosa e di Alghero.
E ancora spezie quali lo zafferano di Navelli, frutti quali il pistacchio di Bronte, il sale di Cerviao di Trapani, il pane di Altamura o di Castelvetrano o di Genzano.
Quanti conoscono questi prodotti? A parole molti, ma pochi li acquistano. La piovra della “marca” comanda la domanda, spesso usando l’arma raffinata di “marchiare” le specialità del territorio, usando l’origine o la tradizione come traino di comunicazione.
Ci sono però casi esemplari quali il pollo di Bresse, dove marchio e denominazione si sono fusi l’uno nell’altro dando vita a uno straordinario successo. Una realtà straordinaria da imitare, forse la sola modalità per salvare l’origine, la cultura dei territori, altrimenti in futuro dovremo consolarci con Parmesan, Regianito, San Marzano di California, Brunello Australiano, nebbiolo canadese, chianina texana eccetera. Sine qua non.

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