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Il Sole 24 Ore

L’America è golosa di made in Italy. Peccato che sia finto … Falsi gastronomici… Un tempo veniva usata la metafora “araba fenice”, oggi potremmo sostituirla con “made in Italy alimentare negli Usa”. Insomma un chi l’ha visto di salumi, formaggi, pasta, conserve, aceto, olio prodotti in Italia, presenti (anzi assenti) nel mercato dei consumi più importante del pianeta. Dei nostri sapori e profumi “autentici” sui banchi di delicatessen degli Stati Uniti c’è poca traccia, ma il fumo è davvero tanto; la promozione all’export dei prodotti alimentari è un andirivieni senza sosta.
Le carovane di missioni regionali, provinciali, comunali, locali a New York, San Francisco o Chicago sono all’ordine del giorno. Chi fosse in grado di calcolare la spesa nazionale per piazzare un formaggio o un salume “locale” negli Usa potrebbe produrre un nuovo libro bianco di sperpero del denaro pubblico. La cifra certa è invece fornita dal calcolo dell’italian food sounding, ovverosia il fenomeno della contraffazione al dettaglio del nostro prodotto: circa 21 miliardi di dollari, circa dieci volte il valore reale delle esportazioni dall’Italia.
Il fenomeno è talmente grottesco da partorire perfino mostre di campioni alimentari falsi che mostrano quanto fascino possiedano nel mondo i nostri prodotti gastronomici, ma di cui altri sfruttano le potenzialità. E illuminante una visita alle le rivendite di delicatessen di New York: Whole foods market (due negozi attualmente considerati al top), Garage gourmet, Dean De Luca, Balducci, Valentina, Murray’s cheese. Alla fine del giro un italiano, orgoglioso dei suoi prodotti, si sente piccolo, piccolo al punto da chiedersi dove sia il made in Italy autentico, fra tante falsificazioni. Ho potuto contare pochi marchi nostrani, quali i prosciutti Galloni selezione black, la pasta Barilla (prodotta negli Usa), la pasta De Cecco, l’olio extra vergine di alcuni produttori di vino (fra cui Badia a Coltibuono), il parmigiano reggiano, qualche altro raro formaggio autentico. Poi il buio. Assieme a questi marchi familiari però ho visto una caterva di bandierine tricolori o sound italian. Alcuni di questi davvero bizzarri una grande quantità di barattoli con un’etichetta bianca, scritto in rosso “San Marzano”. Mi sono avvicinato, orgoglioso, ho girato il barattolo per verificare il produttore, visto che in Italia il pomodoro San Marzano è in via d’estinzione, ma l’indicazione era chiara: made in California. Stessa scena in un altro negozio, con l’aceto balsamico in tanica di plastica da cinque litri. E anche alla vista di un “radicchio rosso” di Treviso avvinghiato a una banda tricolore di dimensioni molto ridotte, rispetto all’originale, tanto da pensare a qualche travaglio di viaggio, ho letto con sorpresa: made in California.
Ma in questo bengodi yankee ho soprattutto incontrato Provolone, Asiago e Gorgonzola del Wisconsin o di California con marchi commerciali che ricordano l’Italia: Stella cheese, Diana, Peluso, oppure il Toscano, pecorino prodotto assieme al pepato da Bellwether Farms, poi ancora il Parma o il San Daniele marchiati Daniele prosciutto & company. Un capitolo a sé tocca al parmigiano reggiano, sempre accompagnato, quasi fossero gemelli, da montagne di parmesan (il cui costo è la metà del parmigiano reggiano), addirittura ora venduto anche invecchiato tre anni.
Se gli americani consumano tanti prodotti italian sounding senza averne la consapevolezza, ciò segna comunque uno straordinario interesse versò il gusto made in Italy. Allora può sorgere un dubbio malizioso sul fatto che l’export gastronomico italiano non sia in grado di soddisfare la grande domanda degli americani. Un vuoto colmato da imprenditori a cui però le leggi americane permettono di non rispettare le denominazioni d’origine europee. Se il fatturato italian sounding è così rilevante, e in crescita negli ultimi anni, viene da chiedersi a cosa siano serviti i tanti viaggi di promozione degli enti locali, soprattutto a favore di realtà di piccole dimensioni economiche, in molti casi non esportabili. Chi deve essere informato è il consumatore americano, non i funzionari degli enti italiani negli Stati Uniti, i più invitati a degustazioni e cene di promozione. Soprattutto viene da chiedersi se invece di fare inutili convegni, mostre, interventi in Italia contro il made in Italy contraffatto, non sia più efficace sfruttare il grande interesse verso mostri prodotti, unendo i singoli investimenti pubblici con grandi campagne comparative provocatorie e ironiche. Oppure spingendo le aziende alimentari sul mercato Usa.
La contraffazione in altri settori, quali la moda, è indice di grande notorietà delle griffe. Così è anche nell’alimentare. Gli organismi internazionali sono sempre più orientati (si vedano il caso parmesan o le denominazioni vinicole penalizzate dalla Ue) a non riconoscere l’origine: l’italian sounding è una triste realtà con la quale bisogna fare i conti. Meglio sfruttarla.

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