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Il Sole 24 Ore

Miracolo Brunello ... Un tempo paese depresso della campagna senese, grazie al suo celebre vino Montalcino è diventato un simbolo internazionale di raffinata civiltà enologica... Chi cercasse un case history per documentarsi sui modi di risollevare un territorio da una crisi economico-sociale, non organizzi convegni “bla, bla” o non butti soldi pubblici con consulenze milionarie. Faccia piuttosto un salto a Montalcino, sì, proprio il borgo meglio conosciuto come Brunello (si potrebbe anche chiamare Brunello di Montalcino), il rosso di sangioveto grosso.
Qui potrà constatare come uno dei comuni più depressi della provincia di Siena negli anni fra il 1955 e il 1970, sia diventato uno dei luoghi più conosciuti e frequentati dal turismo internazionale. Non è solo il costo di un ettaro, coltivato a sangioveto, a essere cresciuto in quarant’anni del ben 2153% (nel 1967 un ettaro costava 1,8 milioni di lire, oggi più o meno 350mila euro), ma la notorietà del borgo che attira i visitatori (si parla di circa 900mila all’anno), la fama dei produttori consolidatasi negli anni, nonché il valore generato nel territorio, sempre più ricercato anche come rifugio per la qualità della vita. E ormai ampiamente dimostrato però che un territorio non decolla se non dispone di un gertius loci e di un leader. E così anche il “miracolo” Montalcino ha un nome: il vino Brunello, appunto. Ma anche dei cognomi: i Biondi Santi, Ezio Rivella, alcuni vignaioli storici e un manipolo di imprenditori soprattutto lombardi.
La leggenda di questo “rosso” toscano affonda le radici molto lontano nel tempo, ma forse una data significativa da cui partire è il 1888 quando Ferruccio Biondi Santi produsse il suo Brunello del Greppo. In questa azienda, il Greppo appunto, tuttora guidata dalla famiglia fondatrice (Ferruccio, poi Tancredi e quindi Franco) sono avvenute metodiche selezioni clonali del Sangioveto, la vinificazione di un unico vitigno nonché la rinuncia al cosiddetto “governo” toscano e produzioni sempre limitate. Da tutto ciò ha preso corpo il fenomeno “Brunello”, nome di fantasia sembra inventato per il colore del vino. Una tappa importante per la storia di questo rosso è il 1967, anno in cui viene fondato il consorzio da 37 soci, di cui solo 12 imbottigliatori (oggi i soci sono 247, di cui 208 imbottigliatori), da cui rimase fuori Biondi Santi forse perché in contrasto con altri produttori, quali i Colombini, che cominciarono a usare il nome “Brunello”. Da poche migliaia di bottiglie di allora si è passati alla media di 6,5 milioni di pezzi degli ultimi anni.
Il gruppo di produttori storici (Costanti, Franceschi, Lisini, Lovatelli, Fuligni, Ciacci Colombini eccetera) cominciò a imbottigliare quel vino, fino allora forse venduto in larga parte in damigiana. Arrivarono quindi i riconoscimenti: Doc (denominazione di origine controllata) e poi Docg (denominazione di origine controllata e garantita). A seguire giunsero nel comune di Montalcino nuovi investimenti di appassionati di vino, imprenditori anche di altri settori che hanno portato un diverso modo di gestione e di produzione: Gianfranco Soldera (Case Basse), Giulio Consonno (Altesino), Turone (Caparzo), Molinari (Cerbaiona), Mastrojanni (Castelnuovo dell’Abate). Quindi, nel corso degli anni 80, sono approdati nel territorio altri nomi famosi quali: Cinzano, Antinori, Frescobaldi, Gaja, Angelini eccetera.
Tra il 1977 e il 1978 Montalcino segna però l’arrivo che, più di ogni altro ha caratterizzato la sua storia recente: un progetto, targato fratelli Mariani, i più importanti importatori distributori di Lambrusco negli Usa, ma ideato da Ezio Rivella, enologo piemontese, nonché manager di livello internazionale. Il suo piano di costruire la più importante azienda vitivinicola di Montalcino (e una delle più importanti in Italia) da zero, provocò una reazione di rifiuto nel territorio simile a quella causata dall’arrivo di Mondavi, nel sud di Francia, ad Aniane (Montpellier).
Rivella, però, a differenza degli americani, alla fine ha vinto la battaglia. Durante i mesi di annuncio del piano Rivella-Mariani, giornali, riviste, radio e televisioni, forti di pareri di enologi, ambientalisti e amministratori pubblici spararono contro l’uso di trattori, mezzi cingolati, costruzioni di moderne, enormi cantine. Fece altresì scalpore l’uso dell’elicottero, quasi si fosse ancora nell’800.
Pochi hanno creduto allora nei metodi moderni di approccio alla viticoltura di questo manager, autore del libro Io Brunello, in uscita in libreria il 26 febbraio, edito da Baldini Castoldi Dalai Editore, perché tutti pensavano alla produzione di un vino tipo “red coca cola”, magari in lattina, simile al lambrusco delle Cantine Riunite. Ci fu perfino chi fece allusioni strane sui fondi dei Mariani brothers, di cui ogni giorno sui giornali cresceva la cifra fino a toccare i 200 miliardi.
Magari sono stati ancor di più. Dunque una manna per un territorio allora ostile, che nel 1986 dovette subire, come tutto il vino made in Italy, i contraccolpi dello scandalo del metanolo. Gli allora nemici degli yankees di Rivella, piano, piano si sono ricreduti sia per la qualità dei vini prodotti da Castello Banfi, ma soprattutto per il modello messo a punto: ristorante, vendita diretta in azienda dei prodotti del territorio, organizzazione delle visite, restauro del castello e dei casali. Nel tempo in molti hanno preso l’azienda dei Mariani come esempio di riferimento, ma chissà se ci sarà un altro Ezio Rivella, capace di inventarsi dal niente un Castello Banfì. Certo con la disponibilità di tanti fondi, con un vino come il Brunello, con un paesaggio come Montalcino e la Val d’Orcia... anche se senza un leader il progetto non decolla! Sine qua non.

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