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Il Sole 24 Ore

Il brand del territorio è la nuova frontiera dell’azienda agricola ... Potere d’acquisto, inflazione reale, impoverimento. Siamo al nocciolo duro dell’economia. Alla nuda vita che deve mangiare, vestirsi scaldarsi.
Viaggiamo in una schizofrenia tra bolla finanziaria e microeconomia del quotidiano Passiamo dai sussulti delle borse alla borsa della spesa della “sciura Maria”. Anche quella rischia di essere riempita di mele cinesi, di pere neozelandesi, di pesche sudafricane e di uva cilena.
La Coldiretti propone iniziative come chilometro zero che paiono sposare le tesi del “Breve trattato sulla decrescita serena” (Bollati Boringhieri) di Serge Latouche.
Costano meno i prodotti locali e stagionali del territorio che non devono percorrere lunghe distanze prima di arrivare in tavola.
Si indicano i farmers market come soluzione per abbassare il costo dei prodotti alimentari. Si rivalutano i mercati degli agricoltori che vengono in città come forme di resistenza a una modernità dai contorni minacciosi.
In realtà, dall’osservazione territoriale di quanto accade nel mondo delle imprese agricole, in particolare quelle associate a Coldiretti, se ne ricava un’immagine tutt’altro che statica o regressiva.
Sono infatti tre i modelli di impresa agricola che vengono avanti nella modernità.
La prima, l’impresa di comunità, è la piccola azienda in cui l’agricoltura svolge un ruolo di integrazione del reddito familiare con produzioni di qualità vendute nel mercato locale. Basti pensare ai produttori di formaggi dell’entroterra ligure, ai produttori di olio abruzzesi odi miele della Garfagnana.
Vi è poi l’impresa di territorio, cioè quel crescente numero di aziende agricole che incorpora nei prodotti, spesso soggetti a tutela del marchio di origine, il valore del brand territoriale come modalità per competere.
Basti pensare alle trasformazioni postbelliche della Langa, passata dal rappresentare la tristezza del declino agro-silvo-pastorale all’essere identificata come luogo del buon vivere e della soft economy sostenibile.
Ma, al di là di questi casi noti, parecchie sono le imprese, come l’Azienda agricola Manuel Corsi di Giustino (Trento), con il suo allevamento biologico di vacche razza Rendena, o la produzione di mozzarelle dell’Azienda agricola Querceta di Putignano, che producono per competere coniugando i caratteri identitari delle lunghe derive storiche legate alle tradizioni produttive con i saperi tecnico-scientifico necessari a dare cittadinanza al prodotto agricolo nel XXI secolo. Questo carattere è ancor più evidente in quelle imprese-mondo, capaci di connettersi e di confrontarsi con i flussi globali.
Casi come la T&t Vegetables seeds di Sant’Anna di Chioggia (Venezia), specializzata nella selezione genetica di sementi delle diverse varietà di radicchio di origine locale che commercializza nel mondo, o l’Azienda agricola Cicchetti di Monteleone di Spoleto con le sue produzioni di farro che approdano per lo più sulle tavole giapponesi, per non parlare delle tante imprese florovivaistiche del ponente ligure che producono e
commerciano fiori invaso per tutto il mondo, testimoniano di una crescente vocazione di questo settore a misurarsi con i mercati internazionali. Tutte esperienze finalizzate a quotare globalmente non solo la qualità dei prodotti agricoli italiani, ma anche un intero modo di vivere in modo armonico e di produrre in maniera sostenibile.
Questa progressiva terziarizzazione dell’attività primaria decreta un nuovo status dell’impresa agricola, e conseguentemente anche dalla figura sociale dell’agricoltore, che si colloca così all’incrocio di una serie di processi di modernizzazione che investono la sfera della nuda vita (salute, salubrità dell’ambiente, paesaggio, biodiversità, culture locali, qualità della vita, ecc.), puntando sulla valorizzazione di beni locali non riproducibili ma quotabili nell’economia mondo come tipicità del made in Italy, così come avviene per l’industria manifatturiera.
E infatti anche le problematiche legate alla competitività di sistema sono simili: il rapporto con la logistica, si pensi a cosa significa per il comparto florovivaistico ligure che compete con quello olandese; quello con le università, che attiene, ad esempio, alla razionalizzazione delle reti irrigue del basso Piemonte dove gli imprenditori agricoli cercano di rispondere al problema della diminuzione dell’acqua di qualità disponibile nelle falde (causa cambiamenti climatici e inquinamento) o alla selezione dei semi di farro delle imprese umbre che esportano in Giappone; quello con i flussi del turismo, quali i tentativi portati avanti dai coltivatori diretti veneti per connettersi direttamente con i grandi flussi turistici di Venezia e della costa; dove, tra l’altro, gli agricoltori sono coinvolti nella mitigazione dell’impatto ambientale del passante di Mestre; o ancora, i rapporti con la dimensione degli investimenti che impone un diverso rapporto con le banche; il nascente rapporto con le utility sul tema dell’energia (biomasse), senza ovviamente dimenticare tutti i temi legati alla tutela del prodotto e del processo produttivo.
Tutte situazioni che suggeriscono il delinearsi di un’impresa agricola del XXI secolo che gioca il proprio ruolo nella modernizzazione su tre dimensione: comunità, territorio e mondo.
Un’impresa che, appunto, incorpora nuove forme di responsabilità verso la comunità territoriale, che punta a competere valorizzando gli elementi materiali ed immateriali di un territorio, che incorpora simboli e visioni culturali capaci di essere riconosciuti nell’economia mondo.

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