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Il Sole 24 Ore

Più fondi alla Fao per la crisi ... “Siamo qui a prendere atto di un sistema che non ha funzionato, dove la finanza ha toccato tutti i gangli: casa, energia e poi, arrivata sulle commodities, le materie prime. Il risultato è che grano e riso sono schizzati in alto determinando il tracollo di intere economie familiari”. E’ la denuncia lanciata da Carlo Petrini, presidente di Slow Food, che indica le prossime battaglie della sua associazione, alla vigilia del Salone Internazionale del Gusto di Torino.
La crisi dei mercati finanziari ha fallo emergere alcune debolezze del sistema creditizio. Per Slow food non ha senso trattare il prezzo del grano alla Borsa di Chicago. Come si può lottare pacificamente contro questo sistema?
In Italia, il cibo ha un incidenza del 5-16% sul reddito delle famiglie, ma in alcuni Paesi arriva all’80%, nella maggior parte il 50 per cento. L’ultima assise della Fao ha messo in evidenza il fallimento della stessa Fao di ridurre da 800 a 400 milioni le persone ridotte alla fame. Sette mesi fa, hanno preso atto che non era possibile perché la comunità internazionale non è riuscita a reperire 30 miliardi di dollari. I sofferenti sono passati a quasi a un miliardo. Per sistemare la crisi finanziaria i Governi di tutto il mondo hanno trovato 3mila miliardi di dollari: le pare giusto? Mettiamo questi due parametri davanti ai nostri Governi. Sui futures del grano e del riso hanno speculato anche le banche italiane, e adesso corriamo a salvare, Pertanto serve avviare un’opera di denuncia.
In questo scenario i prodotti gourmet non diventano un lusso eccessivo?
Se la qualità diventa lusso abbiamo già perso, la qualità è un diritto e non esiste sostenibilità se non c’è rispetto per la casalinga di Voghera. Tagliare i chilometri delle materia prime. Solo così la casalinga è garantita e tutelata. Tutto il resto sono balle radical-chic.
Mi dica un elemento che confermi il fatto che l’attenzione al cibo di qualità è diventata un’attenzione di massa e non una questione da radical chic.
Ci sono diversi fattori. Da un lato, una serie di paure collettive nazionali e internazionali, come quella del latte cinese e le truffe delle società dei formaggi in Italia. Conviviamo con queste paure a fasi alterne. Questa costante genera attenzione da una parte ampia del pubblico, parliamo del 70-80 per cento. Un consumo informato e responsabile. I gruppi d’acquisto solidali, i consumi delle aziende. Non è più una scelta gourmettistica: è un processo di massa.
In televisione i programmi che parlano di cucina o di prodotti locali tirano, le riviste di cucina aumentano le vendite e la rete è piena di blog in cui gli italiani si scambiano le ricette. Quali sono le ragioni di questo successo?
Perché riguarda la vita quotidiana ma non solo: abbiamo capito di essere “quello che mangiamo”. Credo che questa nuova fortuna mediatica sia frutto di un interesse ludico ma anche informativo e conoscitivo: la fortuna di questi programmi è figlia di un’Italia in cui l’arte di cucinare s’è persa e quindi la gente ha bisogno di capire da dove viene. Qualche chef si permette di portare la loro alta cucina e le loro ricette impossibili in tv. È logico che poi il pubblico rimanga frustrato perché quelle cose a casa non riesce a farle.
In un recente colloquio che lei ha avuto col ministro Zaia, sembrava non ci fossero punti di scontro nonostante le vostre matrici culturali diverse.
Con il Ministro ho trovato un feeling e la pensiamo alla stessa maniera su tante questioni, dal fallimento della Politica agricola comunitaria alla valorizzazione della nostra produzione. Sono in molti che non condividono le nostre posizioni e ci tacciano di elitarismo, viaggio tra le utopie, insensibilità per chi ha fame. La qualità non è più lusso e i prezzi devono essere non bassi ma giusti.
La distribuzione in Italia è in mano a pochi grandi gruppi. Hanno dato nell’ultimo periodo maggior attenzione alla localizzazione della produzione?
Direi che questi primi segnali stanno arrivando. Sono in atto processi virtuosi sia nell’approvvigionamento che nella distribuzione e molte catene danno maggior spazio ai prodotti di territorio, per differenziare l’offerta da un supermercato all’altro. Hanno capito che se quel prodotto ha quantità limitate, non può coprire tutto il territorio con la stessa qualità: prima incalzavano il produttore: “Tu oggi produci dieci, domani dammene mille”. In quel sistema, tutt’oggi imperante, il produttore è condizionato dalla Gdo. Il prodotto locale ha dei limiti e dev’essere la Gdo a rispettarli. In questo processo inverso, è più agevolata un sistema come la Coop che ha un forte legame col territorio. Coop Toscana compra la carne chianina ma è impensabile che arrivi su tutti i tavoli di Italia.
In molti le riconoscono il merito di avere precorso i tempi, di avere avuto la vista più lunga della Ue e dei liberisti. Qual è il prossimo passo da fare per un’agricoltura sostenibile? Ci vuole un new deal dell’agroalimentare, un nuovo patto di tutto il sistema produttivo per ristabilire il rapporto uomo-natura. Non è ambientalismo idiota. Ci vuole un’industria sana perché la trasformazione industriale è fondamentale, io non sono un cantore del bel mondo antico. Nel concreto il territorio agricolo va salvaguardato e non cementificato, ci vuole una riallocazione del terreno agricolo, di cui oggi c’è un abuso sistematico. La grande scommessa per le nuove generazioni è tornare con produzioni agricole sul territorio, lo dico perché dal 1950 la popolazione attiva in agricoltura è passata dal 50% al 4%, ma se questo 4% per più del 60% ha 6o anni non c’è molto futuro per questo discorso e per questo Paese. E perché nel futuro, non mangeremo computer e nemmeno informazioni, dobbiamo ricostruire una nuova socialità rurale.

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