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Il Sole 24 Ore

In cantina trovano posto anche i vini “naturali” ... Enologia. Prodotti diversi da quelli standardizzati... Se negli anni 80 un fortunato slogan suggeriva un’alternativa al binomio acqua liscia o gassata, ai giorni nostri una terza via si intravede anche per il vino: nelle cantine dei ristoranti in mezzo ad apolidi e autoctoni hanno trovato posto i vini cosiddetti naturali o diversi.
Diversi da chi? Verrebbe da chiedere ai produttori, anche se loro non si qualificano come tali, anzi ritengono di creare vino con canoni ancestrali, quasi primitivi, a cominciare dal ricorso, per alcuni, ad anfore al posto del legno e dell’acciaio. Allora la differenza esiste rispetto ai vini standardizzati che seguono i principi dei guru americani per ottenere alte votazioni. Differenza c’è anche con alcuni autoctoni che, pur rappresentando un felice ritorno alla genuinità del territorio, sono sottoposti a trattamenti troppo invasivi in cantina. Di fronte a questo panorama è comprensibile come sia nata l’esigenza di tornare all’essenza della pratica vitivinicola, eliminando per quanto possibile gli orpelli scientifìco-tecnologici. In principio fu Rudolf Steiner, pensatore austriaco e ispiratore dell’agricoltura biodinamica. Steiner considerava la terra un organismo vivente in cui i regni animale, minerale e vegetale sono interdipendenti e legati a ritmi e attività del cosmo. La conoscenza di questi ritmi può influenzare semina, coltivazione e vendemmia con effetti positivi. Banditi inoltre tutti i trattamenti chimici del terreno: diserbanti, pesticidi e concimi. Ma le regole possono essere estese anche in cantina, con l’esclusione della chiarificazione e dell’uso di lieviti non indigeni. Abbraccia questa filosofia il viticoltore francese Nicolas Joly che si fa promotore del movimento “Renaissance des Aoc” e ha influenzato il distributore genovese Velier, il quale ha redatto il manifesto “Triple A” secondo cui per ottenere un grande vino, il produttore deve essere: agricoltore che coltiva direttamente il vigneto, artigiano con le competenze basilari per garantire che la struttura originaria dell’uva e del vino rimangano intatte, infine artista dotato della sensibilità per esaltare i caratteri del territorio e del vitigno. In campo italiano c’è da segnalare anche il “Consorzio dei vini veri” che nel loro manifesto si definiscono gruppo di anarcoidi naturalisti e affermano “non siamo biologici, anche se la nostra regola impone condizioni di vigna e di cantina ancora più severe di quelle delle varie certificazioni. Non siamo biodinamici, anche se molti di noi sono vicini alla filosofia di Steiner”. Altra realtà italiana è “VinNatur”, associazione che trae ispirazione da una forte etica ecologica e persegue la limitazione dell’utilizzo di agenti invasivi e tossici di natura chimica e tecnologica, in vigna e in cantina. Infine, ci sono i seguaci del giapponese Masanobu Fukuoka, microbiologo che professa la non azione nei vigneti, minimizzando il più possibile gli interventi dell’uomo sul terreno. Invita alla pratica della sola salvaguardia dell’equilibrio naturale e della catena alimentare, ammettendo l’uso del concime solo nei primi anni di vita del vitigno. In queste interpretazioni si può intuire una comune tendenza che in enologia ha preso nomi via via diversi: biologica, biodinamica o vera. Il denominatore comune resta un vino dal gusto e colore insoliti, certo non facile e ruffiano, ma schietto e genuino. A questo vino, dal 27 al 29 novembre, Milano dedicherà “Semplicemente Uva”, il primo salone che ambisce a raccogliere i produttori delle diverse correnti che teorizzano il ritorno alla naturalità. Che poi sia un fuoco di paglia o la scintilla di una rivoluzione nel mondo vitivinicolo internazionale, solo i calici potranno dircelo.

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