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Il Sole 24 Ore

Una vigna da potare ... Della riedizione di La vigna di uve nere di Livia De Stefani, le pagine più attraenti sono quelle della postfazione. Nata a Palermo nel 1913 in una famiglia ricca e aristocratica, arrivata a Roma nel dopo guerra dopo un precoce matrimonio con uno scultore, la De Stefani è ricordata ancora oggi da qualche esponente della buona società letteraria romana di un tempo come una donna bella, elegante e dotata di quel particolare fascino e di quell’anticonformismo aggraziato e ironico caratteristico di certe dame del Sud. Negli anni Settanta, in virtù del suo talento mondano, diventa con successo una specie di cerimoniera della casa editrice organizzando incontri e ricevimenti quando ancora quello dell’ufficio stampa non era un tecnico, ma una sorta di invenzione personale fatta di conoscenze private e grande fair play. Ma volle essere anche scrittrice benché le mancasse, come si legge nel prezioso libro di Sandra Petrignani Le signore della scrittura, quell’aria “sciamannata” che caratterizzava allora le autrici alla moda.
La vigna di uve nere racconta una fosca storia di violenza familiare, torbidità sessuale, passione e incesto nella Sicilia primo Novecento sul genere Cavalleria Rusticana più che Verga. Fu pubblicato da Mondadori nel 1953, ebbe successo, fu premiato e tradotto in varie lingue, ma la vicenda più interessante oggi è il retroterra editoriale dell’opera della scrittrice siciliana, vere neiges d’antan, così come lo ricostruisce Salvatore Ferlita nell’appendice del volumetto. Sono gli anni in cui il grande critico ed editore Niccolò Gallo si lamenta che la mondadoriana prestigiosa collezione “Medusa degli italiani” sia non solo ingrigita ma accolga “le manifestazioni più stantie del neorealismo d’accatto”. Gli addetti editoriali sono esigenti, esasperati, realisti. Vittorini accusaillibro della De Stefani, tra l’altro, di “fangosa pesantezza descrittiva”, poi consiglia di pubblicarlo, molto sfoltito. Ma quando l’autrice presenta all’editore qualche anno dopo Passione di Rosa, Giansiro Ferrata trova il romanzo “falso da cima a fondo”, e Crovi e lo stesso Vittorini si accaniscono senza pietà ma anche senza somnìarietà. Mentre la carriera della scrittrice continua tra alterne vicende, in queste poche pagine vediamo profilarsi, a proposito di un autore già considerato dai suoi stessi contemporanei appartenente al costume letterario piuttosto che alla letteratura, un incessante lavorio di valutazione, un lavoro editoriale instancabile e approfondito, che non trascura il pubblico ma non perde mai d’occhio, con sguardo sicuro, l’opera: gli editor di allora appaiono veri eroi della passione e del disincanto. Come appunto Gallo, che al giro di boa del primo centinaio di volumi della Medusa geme sui tanti libri “tirati a lucido” e “appoggiati sul gergo” e “fermi alle storie ossessive del sesso” e “risolti con la truculenza di una narrazione sfatta, epicizzante”. Un’epica, non ha dubbi Gallo, d’accatto e fatalmente posticcia: “Una sorta di accademia, di ribelli, che sparano a salve”.
Livia De Stefani, “La vigna di uve nere”, con uno scritto di S. Ferlita, Isbn Edizioni, Milano, pagg. 234, €14,00.

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