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Il Sole 24 Ore

Evitare l’effetto panico per calmierare le quotazioni ... Per la seconda volta nel giro di pochi anni il mondo si trova ad affrontare lo spettro del caro cibo. Significa che non possiamo più illuderci che la crisi del 2007-2008 abbia rappresentato un evento eccezionale. La comunità internazionale, dunque, non può limitarsi ad affrontare le emergenze mari mano che si manifestano, ma deve trovare il coraggio e l’unità di intenti per riformare il sistema globale su cui poggiano la produzione e il commercio del cibo, come più volte è stato auspicato dall’autorevole International Food Policy Research Institute. Se nel mondo tutto cambia, compresi gli equilibri tra nord e sud e i rapporti tra attori pubblici e privati, non ci si può stupire che organizzazioni nate mezzo secolo fa come la Fao non siano più in grado di reggere da sole la sfida. Dopo aver fatto questa doverosa premessa, vorrei provare ad entrare nel merito della crisi che sta spaventando Pechino, Washington e il mondo intero. Ho letto con interesse l’articolo di Francesco Sisci, che nei giorni scorsi su queste pagine raccontava il ciclone che potrebbe essere innescato dalla carestia cinese. Oggi la fame di massa, ancora diffusa nel ‘900, per fortuna è diventata un fenomeno molto raro. Spesso dietro a queste tragedie c’è stata una miccia naturale, come alluvioni o siccità, ma un peso ancora maggiore probabilmente lo hanno avuto le ideologie. Il lysenkismo promosso da Stalin in alternativa alla
scienza occidentale, il Grande balzo in avanti di Mao, la pretesa di Kim Jong Il di stabilire personalmente quali fossero i metodi corretti di coltivazione, gli errori di pianificazione di Castro.
Come ha spiegato Amartya Sen, e come conferma la storia del XX secolo, la fame di massa diventa un’eventualità assai più improbabile quando i mercati sono liberi e sono libere anche le elezioni. Questo non significa però che il mondo contemporaneo, e in particolare l’Occidente, non abbia nulla da temere. Le proteste per il caro cibo sono già divampate vicino a noi, sull’altra costa del Mediterraneo. In quei casi non si può parlare di fame, ma piuttosto di impoverimento, ed è il senso di ingiustizia sociale acuito dall’aumento dei prezzi più che lo svuota- mento delle dispense ad aver riempito le strade di manifestanti. Anche oggi alcune delle cause scatenanti sono naturali, perché in diverse aree del mondo i raccolti non sono stati all’altezza delle aspettative, ma altre cause sono politiche. Negli Stati Uniti si discute molto e giustamente dei contraccolpi della diffusione dei biocarburanti, che sottraggono terreno utile alla produzione alimentare, come ha riferito anche nei giorni scorsi Il Sole 24 Ore. Si tratta di un tema molto serio, che però non dovrebbe diventare come una sorta di capro espiatorio su cui scaricare l’intera responsabilità di un fenomeno che è assai più complesso. Gli analisti discutono ancora sul peso relativo dei diversi fattori che hanno contribuito all’ondata inflazionistica del 2007-2008, tra cui figurano le speculazioni finanziarie e l’aumento dei consumi nei paesi emergenti. Studiosi molto quotati sostengono che il contributo dei biocarburanti alla crisi è stato reale ma modesto. Qual è stato allora il singolo fattore più rilevante? Si tratta delle reazioni di emergenza degli stati nazionali, che di fronte alle fluttuazioni dei prezzi internazionali corrono a comprare o bloccano le esportazioni, aiutando il fuoco a divampare. Se nella mia premessa ho individuato l’inerzia come la causa remota dei nostri problemi, nella conclusione devo dire che il nostro peggior nemico per l’immediato è un altro: la paura.

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